Nava Hefez è la responsabile del settore educativo di Rabbis for Human Rights. Il loro simbolo è una torah srotolata che abbraccia la bilancia, allegoria laica del diritto e della giustizia. Crede alla profonda e doverosa compenetrazione tra i principi dell’ebraismo e quelli della democrazia, in un contesto in cui spesso i due termini vengono rappresentati come poli di un’alternativa. E’ l’unica organizzazione rabbinica israeliana che raccoglie studenti e rabbini riformati, ortodossi, conservatori, ricostruzionisti e innovatori. Non riceve fondi o aiuti dallo stato d’Israele ed è supportata principalmente da organizzazioni ebraiche liberali americane ed europee. In particolare, i loro progetti riguardano il mondo del lavoro e dell’immigrazione, la piena integrazione dei cittadini arabi, i diritti delle donne e la definizione di codici culturali compiutamente democratici all’interno dello stato ebraico.
Nava, oltre che lavorare ai progetti educativi dell’organizzazione, è studentessa rabbinica in una yeshiva liberale e sarà rabbino tra un anno.

Come e quando è iniziata la storia di Rabbis for Human Rights
Rfhr è iniziato ad esistere nel 1988, subito dopo l’inizio della prima Intifada. Volevamo in quel momento far sentire una voce umanista, filantropica, ma legata alla storia, alla tradizione e alla fede del popolo ebraico. Volevamo affermare che quello che succedeva nei Territori era una grave violazione dei diritti umani. Erano i tempi in cui il futuro premio Nobel per la pace, allora prima ministro, Itzak Rabin, diceva alla polizia e all’esercito “spezzategli le braccia e le gambe”. Due rabbini pensarono che questo non fosse un modo di affrontare la situazione conforme alla storia e alla tradizione del popolo ebraico, e decisero di fondare questa organizzazione.
A quel tempo lavorammo principalmente nei Territori, negli ultimi tre anni però, abbiamo iniziato a operare molto anche all’interno della green line. Promuoviamo azioni dirette, azioni coordinate con altre associazioni e interventi educativi. In collaborazione con l’esercito, ad esempio, che ci difende dai possibili attacchi dei coloni, a partire dal mese di ottobre, abbiamo aiutato contadini palestinesi di numerosi villaggi nella raccolta delle olive. In molti casi infatti le colture di ulivo sono collocate all’interno del perimetro delle colonie, anzi meglio, le colonie circondano o invadono gli oliveti. Spesso è capitato che i coloni attaccassero i raccoglitori di olive e noi con loro e per questo è stato indispensabile chiedere protezione all’esercito.
Un’altra attività riguarda la prevenzione della demolizione illegale delle case dei palestinesi. Specialmente a Gerusalemme, perché lì non c’è un piano regolatore. Chiedere un permesso per la costruzione o l’ampliamento delle case a Gerusalemme è un incubo per tutti, anche per gli israeliani, ma per i palestinesi è molto peggio. Negli ultimi trent’anni più di cinquemila case sono state demolite a Gerusalemme Est.
Tornando alla questione della demolizione delle case, bisogna precisare che non stiamo qui parlando della demolizione delle case degli attentatori suicidi, ma della demolizione delle case di semplici abitanti di Gerusalemme che non possono ottenere il permesso di costruire o ampliare la loro casa. Questa è davvero una questione che riguarda i diritti umani e noi interveniamo quando arriva l’ordine di evacuazione della casa perché si proceda a demolirla. Il più delle volte, purtroppo, non riusciamo ad evitare che ciò avvenga. Quel che facciamo è tornare appena possiamo e lavorare alla ricostruzione della casa. C’è una famiglia a Gerusalemme Est a cui è stata distrutta la casa tre volte. Con una delegazione di Rfp e di supporter l’abbiamo ogni volta ricostruita. Alla terza ricostruzione vi abbiamo insediato un centro per la pace e la casa non è più stata distrutta. Questo è uno dei pochi casi in cui abbiamo avuto successo.
Che tipo di risposte avete da parte della società israeliana?
La maggioranza della popolazione israeliana è molto mal informata su quello che succede qui. Un sacco di gente in Israele parla di Gerusalemme, si riempie la bocca col nome o l’importanza della città, ma non è mai stata nella città santa. Proprio per questo la situazione rimane così: le persone non sanno di cosa parlano. Se guardi bene la città, vedi in realtà due città: la parte est e la parte ovest sono solo nominalmente e dal punto di vista amministrativo appartenenti alla stessa muni ...[continua]

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