Da febbraio lavoro nella redazione esterna di “Ristretti”, che costituisce il punto di contatto col territorio, con la gente, gli enti locali e il mondo dell’associazionismo. Da qui nascono tutta una serie di relazioni e progetti che prima, stando dentro il carcere, non c’era la possibilità di sviluppare, non solo per ovvi motivi di limitazione della libertà di movimento, ma anche perché stando reclusi non avevamo la percezione diretta della gravità di alcune problematiche.
I percorsi attivati sono tanti. Per esempio abbiamo una trasmissione settimanale su Radio Cooperativa (una radio libera di cui è presidente don Albino Bizzotto, dei Beati Costruttori di Pace); si chiama “Ristretti Radio” ed è una sorta di rubrica autogestita, di un’ora e mezza, in cui viene fatta un’analisi delle notizie della settimana inerenti le tematiche del carcere e della giustizia. E’ una trasmissione aperta agli ascoltatori, che possono telefonare e con i loro interventi innescare un dibattito su temi ogni volta diversi. E questo è uno di quei progetti che da dentro il carcere sarebbe stato impensabile.
Un altro filone è quello delle problematiche degli homeless. In particolare, insieme agli operatori che qui a Padova si occupano storicamente dei senza dimora, stiamo organizzando un servizio di “Avvocato di Strada”, proprio perché ci siamo accorti che il carcere e la strada sono due vasi comunicanti: chi vive sulla strada spesso si mette nei guai con la giustizia e finisce dentro e, viceversa, chi esce dal carcere spesso finisce sulla strada perché non sa dove andare a parare. Il progetto prevede sia un servizio di tutela legale degli homeless, sia una serie di interventi per la valorizzazione delle loro risorse personali. Ad esempio abbiamo cominciato a stampare un giornale, il Brontolo (siamo ancora al numero zero), un altro progetto reso possibile solo dal fatto di avere una sede esterna. In altro modo, non avremmo mai potuto percepire, toccare con mano, i problemi del territorio. Qui ogni giorno arrivano persone che hanno terminato la pena, o hanno problemi penali in corso, in cerca di un lavoro, di una casa, della possibilità di mettersi a posto. Ovviamente non è che possiamo dare risposte a tutti, più che altro è un ufficio informazioni, quindi forniamo indirizzi e cose di questo genere.
L’altro versante è la difficoltà di informare, di trovare canali di comunicazione con la cittadinanza. Nelle prime trasmissioni, ad esempio, mi sono trovato di fronte a un pubblico di radioascoltatori assolutamente digiuno rispetto alle nostre problematiche, e dire che Radio Cooperativa è una radio libera storica, con un pubblico affezionato, che ha già una sensibilità sul sociale. Nonostante ciò, del carcere non sapevano nulla. All’inizio c’è stata un’ondata di simpatia, tutti a telefonarmi, a dirmi bravo, bravo, poi, quando abbiamo cominciato a toccare problemi seri, spinosi, come quello della sicurezza in città, del reinserimento delle persone che erano state in carcere, sono venute fuori anche opinioni dure: “Io sono stato derubato… Io qui, io là…”. Molta durezza anche contro gli immigrati: “Ci rovinano tutto, siamo già poveri noi, vengono a portarci via…”, questa dinamica di guerre tra poveri.

Sono entrato in carcere nel 1990, quindi ho già scontato una quindicina d’anni. All’epoca non avevo assolutamente interesse per il sociale. Averlo maturato mi ha forse salvato un po’ la vita.
L’idea di Ristretti Orizzonti è partita che Ornella non c’era ancora. Io avevo già delle ambizioni giornalistiche, però non avevo le idee chiare. Già nel supercarcere di Voghera, dov’ero prima di essere trasferito qui a Padova, avevamo iniziato a produrre un giornale, “Sbarre Differenziate”, grazie anche al fatto che nel carcere entravano i radicali. Ne sono usciti alcuni numeri poi la cosa si è interrotta. In seguito sono stato “declassificato”, ovvero collocato in un grado inferiore di sicurezza, e sono stato trasferito qui. Anche Padova viene definito supercarcere, ma in realtà è di un livello di sicurezza medio.
Quando sono arrivato io, nel ’95, non si faceva praticamente nulla, l’istituto era reduce da una brutta esperienza, l’evasione di Felice Maniero, il capo della banda del Brenta. Maniero aveva pagato degli agenti -aveva un sacco di soldi- i quali gli avevano aperto le porte del carcere, a lui e ad altri due detenuti suoi soci. Da notare che in seguito Maniero si è pentito e ha fatto arrestare tutto il resto della banda. Ovviam ...[continua]

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