Jaime Riera insegna spagnolo all’Università di Torino. Paolo Hutter, già consigliere comunale di Milano e assessore a Torino, è giornalista.

Vorrei parlare con voi dell’esperienza dell’esilio. Soprattutto del fatto che tu, Jaime, a un certo punto hai avuto la possibilità di tornare in patria e non lo hai fatto…
Jaime Riera. Sì, è vero, ed è proprio quello l’esilio. Paradossalmente, il vero esilio comincia quando hai la possibilità di tornare nel tuo paese e non lo fai. L’esilio è un’esperienza umana complessa, ti devi confrontare continuamente con l’idea del posto dove stai, e se anche ormai hai la libertà teorica di tornare, la realtà, la vita, ti presentano degli aspetti concreti che limitano di fatto tale libertà. Mi dico: “Sì, potrei tornare…”, ma in realtà non posso, sarebbe come esiliarmi di nuovo.
Nei primi anni ’90, l’Ufficio per i Rifugiati dell’Onu, lo stesso che ci aveva aiutato a fuggire dal Cile, aveva cominciato a creare programmi per il ritorno: ci pagavano il biglietto, ci offrivano un po’ di soldi e ci garantivano una forma di sostegno per il primo anno, per agevolare il reinserimento. Io fui molto tentato, mi dicevo: “Adesso torno”, poi il giorno dopo: “Non ritorno”, e il giorno dopo ancora: “Ci penso ancora un po’”. Ma ci sono tante questioni, la vita privata, il lavoro, le persone, gli affetti… E più ci pensi, più passa il tempo, e più ti si impone il fatto concreto, reale, che la tua vita è qua. Questo, però, non risolve il problema che in realtà non ti senti mai completamente di qua.
Che impressione hai avuto dell’Italia e di Torino al tuo arrivo? Parliamo di quasi trent’anni fa…
Jaime. Torino, l’Italia, l’Europa, trent’anni fa erano tutta un’altra cosa. Adesso ti senti meno straniero perché il mondo stesso in cui vivi e di cui fai parte ha un rapporto con lo straniero molto diverso da quello di allora. All’epoca, in una città come Torino, praticamente non c’erano stranieri, potevi trovare al massimo qualche europeo, e tu, di conseguenza, ti sentivi parte di una minoranza molto piccola. Ora invece tutto è cambiato. Gli immigrati di lingua ispanica, ad esempio, sono moltissimi.
Ricordo che venni in Europa per la prima volta nei primi anni ’70 e la sensazione che ne ricevetti fu di un paese “bianco”: tutte le grandi città, Parigi, Londra, che pure avevano al loro interno minoranze extraeuropee, erano comunque città “bianche”, con un’identità chiara e definita. Le ultime volte che sono andato a Parigi, invece, ho avuto la sensazione netta che oramai non sia più possibile affermare con sicurezza che la maggioranza della popolazione sia bianca. E a Londra è lo stesso.
Quindi, quando arrivasti dal Cile per la prima volta trovasti Torino molto più provinciale di adesso?
Jaime. Sul concetto di provinciale andrei molto cauto perché secondo me è una categoria non facile da maneggiare. Non dimentichiamo che ero un esule politico, per cui per me la dimensione e la cultura politiche erano fondamentali. E sotto questo profilo, la Torino che trovai in quegli anni non era provinciale per niente, anzi aveva un’identità molto chiara e una sua centralità nel panorama politico-culturale europeo, rispetto a un certo tipo di attività e di pensiero. Forse, sotto questo profilo, è più provinciale adesso che è diventata una città secondaria nel panorama politico italiano ed europeo.
A Torino rimanesti quattro anni dopodiché te ne andasti…
Jaime. Sì, andai in Spagna, in Catalogna, e in seguito in Olanda; qui a Torino avevo una rete di amici e decidemmo di trasferirci tutti assieme a Barcellona. Perché lo feci? Per motivi personali ma soprattutto per motivi culturali: a un certo punto avevo avuto paura di perdere la mia lingua. Poi Barcellona era una città che mi attirava. Era l’80, era appena morto Franco e la Spagna era in una fase di transizione; la Catalogna, poi, per motivi politici e sociali era un terreno particolarmente interessante.
Sì, la Spagna per me ha costituito un momento di rottura. Infatti negli anni in cui sono stato lì praticamente non ho più pensato al Cile e non ho avuto quasi più rapporti con quel paese.
Quando poi decisi di tornare a Torino, dieci anni dopo (per due anni feci avanti e indietro, per poi fermarmi definitivamente) scattò quella “cosa”: decisi che non sarei mai più tornato a vivere in Cile, sarei diventato un esule “volontario”. In Cile si usava il concetto di “esule interno” per descrivere la situazione di chi era rimasto a vivere là in condizioni di t ...[continua]

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