Emilio Rosini ha operato attivamente nel Partito Comunista Italiano dal 1944 al 1966 rappresentandolo anche alla Camera dei Deputati. E’ stato avvocato, docente, consigliere di Stato, presidente del Tar del Veneto, vice sindaco di Venezia. Il libro di cui si parla è L’Ala dell’Angelo. Itinerario di un comunista perplesso, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2003.

Ne L’Ala dell’Angelo, racconti le tue esperienze nel Partito comunista italiano riferendoti a chi (Vittorio Foa, Aldo Schiavone, Eugenio Garin) ha lamentato la mancanza di testimonianze del genere. Avverti però sin dall’inizio che degli eventi in cui ti è capitato di imbatterti, raramente, e mai tempestivamente, hai avvertito il significato e intravisto le conseguenze. E’ per questo difetto di perspicacia che sei stato un “comunista perplesso” come ti qualifichi nel sottotitolo ?
La perplessità è una condizione che non ho conquistato precocemente. Negli anni (una ventina o poco più) della mia militanza totale, l’epoca che sta al centro del mio racconto, di dubbi ne ho avuti, se mai, troppo pochi. Non ne sono orgoglioso. E se ho voluto rendere ragione di una esperienza, che è significativa solo perché comune a tanti, non è per sopperire al “silenzio degli ex comunisti” lamentato da Garin: non mi pare che manchino le testimonianze. Mancano in esse piuttosto gli atteggiamenti critici. Troppo spesso nei loro racconti autobiografici i comunisti o ex comunisti (io non mi ritengo un ex comunista, casomai un ex iscritto al partito comunista) si mostrano tanto soddisfatti di sé, del loro passato di lotte e di sacrifici, da non avvertire l’esigenza di chiedersi come sia accaduto che tuttavia, dopo mezzo secolo di serio impegno per una democrazia sostanziale, la sinistra in Italia si trovi oggi divisa e disorientata, disarmata della sua identità di fronte al dilagare di una cultura incivile alla quale sta omologandosi, dopo che la sua esperienza di governo è stata rifiutata dalla metà del popolo italiano. Si può essere soddisfatti di questi risultati? Basta poter esibire la propria dedizione, la propria buona fede? Ci mancherebbe pure che si sia stati in malafede! Ma chi è in buona fede è per definizione un ignorante, una persona non informata, all’oscuro di come stanno le cose. E una causa non è giusta solo perché tanti hanno lavorato e sofferto, e magari sono morti, per essa. Io di ciò che ho fatto non sono né soddisfatto né orgoglioso, tanto meno della mia buona fede. Che non è un merito, dopo tutto, né un’attenuante per gli errori commessi. Che magari hanno nuociuto ad altri. Rendersene conto, sia pure in ritardo, contestualizzarli, rintracciarne le radici, può servire a non ripeterli, ad esorcizzare le utopie, a trovare altre strade. Per questo, per capire le vicende che in qualche modo mi hanno coinvolto, ho scritto questo libro.
C’è chi ha detto che la comprensione è la negazione dell’azione: chi è adatto a capire gli eventi raramente è adatto a produrli. Probabilmente è vero anche il contrario: chi è portato ad agire non è portato alla riflessione. Pare che l’età renda gli uomini più riflessivi e meno portati all’azione. E sta di fatto che le grandi imprese (non dico le migliori) si compiono da giovani. Alessandro Magno morì a 33 anni dopo avere conquistato mezzo mondo.
Luciano Bonaparte aveva 24 anni quando organizzò il colpo di Stato del 18 brumaio. Comunque, è naturale che sia proprio dei giovani progettare sterminate trasformazioni del mondo. Ed è altrettanto naturale che i giovani siano portati a fare monumentali errori. I fondatori del Partito comunista d’Italia nel 1921 erano tutti giovanissimi (il più vecchio di loro, Bordiga, aveva 32 anni). E la scissione di Livorno fu un colossale errore perché frantumando il movimento socialista aprì la strada al fascismo. I fondatori del Partito comunista, che tanto venerammo, non avevano capito niente. E la mia generazione trent’anni dopo non aveva ancora capito niente, tanto che celebrava solennemente gli anniversari del congresso di Livorno. Ormai bisogna avere il coraggio di dirlo.
Non so se sia mai successo che una generazione abbia trasmesso all’altra qualcosa di proficuo; temo che ognuna si debba arrangiare da sola. Noi, generazione del dopoguerra, non potevamo trasmettere alla successiva né consapevolezza né profondità di analisi. Gli ideali, questi sì. Quelli che ci aveva trasmesso la precedente, quella degli anni ’30. La certezza che la crisi generale del capitalismo sarebbe ...[continua]

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