Giorgio Moroni, imprenditore, vive e lavora a Genova.

Tutto comincia nel 1978, quando vengo perquisito durante il sequestro Moro, come tanti altri compagni. Io ero allora un militante dell’autonomia operaia, e a Genova in quel periodo facevo il coordinatore di una rivista, “Nulla da perdere”, di cui era già uscito un numero; avevo a casa il menabò del secondo. Nel giornale c’era la solita rubrica, “riceviamo e pubblichiamo” e tra le varie lettere era arrivato anche il comunicato di un gruppo armato genovese che rivendicava un attentato dinamitardo alla Borsa valori.
Nel corso della perquisizione non trovano le armi che andavano cercando né tanto meno l’onorevole Aldo Moro, però trovano questo menabò, e lo sequestrano assieme al comunicato. Così decidono di fermarmi e vengo arrestato con l’accusa di partecipazione a banda armata. Questo è il preambolo. Siamo nel ’78, tra aprile e maggio; vengo scarcerato dopo che il corpo di Aldo Moro è stato trovato in via Caetani.
Nei primi mesi del ’79 c’è il primo e unico convegno contro il piano nucleare a Genova; io sono tra gli organizzatori. A questo convegno partecipano i comitati dell’Enel di Roma e anche alcuni compagni dell’autonomia veneta.
Questo è un altro tassello della costruzione.
Il 7 aprile del ’79 c’è infine un’offensiva giudiziaria totalmente abusiva e però decisiva per le sorti del movimento anti-istituzionale italiano rivoluzionario, che è l’arresto in massa di numerosi militanti dell’autonomia operaia, con l’accusa di essere il cervello, non solo politico, ma anche militare, delle Br. L’azione è opera congiunta della magistratura e della polizia giudiziaria. Nei mesi precedenti era stato incaricato di dirigere il nucleo antiterrorismo il generale Dalla Chiesa, che aveva assunto il comando della divisione Pastrengo. Lui resta certamente spiazzato da questa offensiva giudiziaria: uomo estremamente orgoglioso si sente in qualche modo scavalcato, emarginato. Nel frattempo di Genova è stata disegnata un’immagine di città culla, chiave delle Br. La colonna genovese delle Br è ritenuta quella più importante; del resto, è quella che ha portato a termine il primo sequestro e il primo omicidio di un magistrato, e altre azioni piuttosto importanti. Nelle intenzioni del generale Dalla Chiesa nasce così la volontà di dare rapidamente realizzazione ad un’offensiva giudiziaria che ristabilisca un po’ le proporzioni. In altre parole: anche i carabinieri devono pur fare qualcosa contro le Br. Quindi in modo frenetico, convulso, raffazzonato, i carabinieri mettono in piedi nell’arco di 4-5 settimane un’inchiesta che porta, il 17 maggio del ’79, all’arresto di circa una quindicina di militanti rivoluzionari o comunisti genovesi, accusati di far parte delle Br. In realtà è una grossolana provocazione, nel senso che questa inchiesta si basa su testimonianze prezzolate, e sulla connivenza della magistratura che assume ridicoli indizi e li trasforma in prove; in questa iniziativa è attivo anche un agente dei servizi segreti, Enrico Mezzani, il quale all’epoca agisce per conto del Sisde.

Io sono tra i 15 arrestati; veniamo tutti portati nei vari carceri del nord Italia, io a Novara; restiamo in isolamento per almeno una quindicina di giorni; nel corso degli interrogatori non ci vengono svelate le origini e le fonti che ci accusano. Quindi, pur essendo l’interrogatorio, secondo il codice di procedura civile, “strumento di difesa” dell’accusato, in realtà nessuno di noi è messo nelle condizioni di difendersi, perché, per dire, a me viene comunicato: “C’è una persona di cui non possiamo rivelare il nome per esigenze di segreto d’istruttoria, che afferma che lei, in luogo che non possiamo specificarle per ragioni di segreto d’istruttoria, in un giorno che non possiamo rivelarle perché altrimenti lei facilmente individuerebbe la persona -è tutto scritto- sostiene nella sua deposizione che lei avrebbe tentato un reclutamento”. In sostanza io avrei proposto a questa persona di entrare nelle Br. A questo punto nessuno sarebbe stato in grado di difendersi perché non sapendo chi sia la persona, né quando, né dove, ecco, basta, è chiuso. Solamente quando la sentenza viene pubblicata, cioè a distanza di 6 mesi dall’arresto, viene rivelato il nome della fonte, della persona che ha reso la testimonianza.
Quando compare il nome di questa persona, che tra l’altro coinvolge nella sua testimonianza altri due militanti, di fatto non si risolve niente, perché nessuno di n ...[continua]

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