Alessandro Carrera, poeta e narratore, insegna Letteratura presso il Department of Modern and Classical Languages dell’università di Houston, Texas. Recentemente ha pubblicato La voce di Bob Dylan. Una spiegazione dell’America, Feltrinelli 2001.

Tu sei, prima di tutto, un grande ammiratore di Bob Dylan. Ma come è nato il progetto di questo libro?
Il progetto è venuto fuori da solo. Io volevo prendere Dylan estremamente sul serio, non fare niente che strizzasse l’occhio agli anni ‘60, con tutte queste storie della generazione, ecc., cioè volevo scrivere su Dylan come uno che scrivesse su Walt Whitman o, che so, su Foscolo. Io considero Dylan un classico anche se è ancora vivo, un grande artista che ha mescolato generi e mondi diversi, l’unico che è riuscito a mettere in comunicazione la cultura alta e i cantanti di blues. Quindi penso vada preso sul serio.
Questa è stata un po’ l’idea, per cui non mi sono tirato indietro di fronte a nessuna possibile spocchia culturale. E infatti nel libro parlo molto della tradizione da cui Dylan è venuto fuori e che lui ha studiato, quella del blues, del folklore, ecc., ma anche di personaggi piuttosto intoccabili della cultura alta, ai quali non mi sono vergognato di accostare Dylan. In genere questa cosa è piaciuta, tranne a un recensore, quello del Sole 24 ore, che ha scritto un po’ sprezzantemente: “Ma questo è un libro troppo professorale, si vede che è scritto da un professore, cosa tira in ballo? Petrarca?”.
Petrarca viene nominato una volta sola, Blind Willie McTell la nomino per otto pagine, ma evidentemente il recensore non la conosce; è rimasto solo irritato da un riferimento di passaggio che faccio nel primo capitolo soltanto per dire che “Dylan non è Petrarca, ma almeno lasciamogli la possibilità di essere Guillaume de Machaut”, che è, a mio avviso, il corrispondente quattrocentesco di Dylan, quello che ha messo assieme la musica popolare e la poesia colta.
Insomma, l’idea era di trattare Dylan rispetto ad alcuni temi fondamentali: la poesia, il rapporto con la poesia, il rapporto con il folklore bianco, il rapporto con il folklore nero, blues in particolare, e poi la morale, la politica e la religione. Ho lasciato fuori due aspetti, perché non avevo più tempo rispetto alla scadenza editoriale e poi perché il libro diventava troppo lungo: uno era sulle ballate narrative, in particolare sul fatto che queste sono scritte in un ordine non lineare, in una forma che permette di ricostruire la storia in tanti modi e di non essere mai sicuri di cosa sia successo veramente. C’è proprio un uso studiato del tempo della narrazione; Dylan ci ha meditato e ho tutte le prove per poterlo dimostrare. L’altro capitolo lo avrei voluto dedicare specificamente al periodo cristiano, dal ‘79 all’81, il periodo della conversione e dei concerti religiosi: lì mi interessava soprattutto il rapporto con il gospel, il rythm and blues, la tradizione nera di quel tipo; un po’ ne ho parlato qua e là, però non ho fatto in tempo a farne l’oggetto di un capitolo specifico; può darsi che lo faccia in futuro.
Comunque non hai risparmiato le critiche, anche…
Sì, non ho neanche taciuto le sue debolezze, anche artistiche. Ci sono dei periodi di magra, dei periodi di scarsa ispirazione, anche di disprezzo nei confronti della propria arte. Da questo punto di vista, Dylan è una figura unica, perché lui può essere grandissimo o atroce, mai mediocre. Anche quando è atroce, lo è in modo sfacciato, come uno che, sapendo di non esser bravo, preferisca esser pessimo piuttosto che mediocre.
Dylan ha avuto anche dei periodi bui, proprio alla fine degli anni ‘80, inizio anni ‘90, e andare ad ascoltarlo era proprio una sofferenza, sofferenza per chi lo conosceva, e un enigma per chi non lo conosceva. Andavi a sentire una specie di cane latrante e dicevi: “Ma cosa ci trova la gente in questo qui?”.
Per alcuni anni è stato così, ma a questo proposito bisogna mettere in risalto una certa perversità estetica in Dylan; c’è in lui un’estetica del brutto che viene proprio dalla musica popolare. Questa, infatti, non deve essere fatta troppo bene; cioè: dev’essere fatta bene, ma non secondo i criteri della musica colta o anche della musica d’intrattenimento; al fondo deve mantenere qualcosa di rozzo. Questa rozzezza di fondo si deve avvertire e credo che questa, per Dylan, sia diventata proprio un fattore di poetica. Se si vanno ad ascoltare i dischi che lo hanno influenzato maggiormente, quell ...[continua]

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