Luca Baccelli insegna Filosofia del diritto nella facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pisa. Autore di numerosi saggi di argomento filosofico-politico e filosofico-giuridico, ha recentemente pubblicato Il particolarismo dei diritti. Poteri degli individui e paradossi dell’universalismo (Carocci editore, 1999).

Quella statunitense viene spesso presentata come la più avanzata delle democrazie liberali, ma nelle recenti elezioni presidenziali ha messo in luce non pochi punti deboli. Lei cosa ne pensa?
Le elezioni americane hanno fatto sicuramente emergere un bel numero di questioni, ma anzitutto credo vada discussa l’affermazione che la democrazia americana sia la più avanzata. Gli Stati Uniti d’America sono certamente stati la prima grande democrazia del mondo moderno, così come sono stati il paese in cui, nella prima metà dell’Ottocento -quando in Europa c’erano solo i sistemi censitari di voto-, si è cominciato a realizzare il suffragio universale. Il fatto che si sia applicato su scala sempre più ampia il principio ‘una testa, un voto’ esprime un forte ethos democratico ed è appunto questo ethos che Tocqueville sottolineava, quando scriveva ne La Democrazia in America che, prima ancora che una struttura istituzionale, la democrazia americana era un modo di vita, una cultura.
Certo questa cultura non era priva di contraddizioni: la schiavitù, il razzismo nei confronti dei neri e degli immigrati, che dovevano essere assimilati a un certo modello culturale, per non parlare poi della condizione degli americani ‘veri’, cioè dei nativi. Tutto ciò non toglie che gli Stati Uniti d’America, come esperienza politica, culturale, giuridica, abbiano un’importanza straordinaria e costituiscano un’eredità preziosissima per tutta la cultura politica democratica occidentale. L’antichità di questa esperienza ne segna però anche i limiti, perché è da essa che dipendono i paradossi evidenziati dalle elezioni appena passate. Il fatto che, ad esempio, ogni contea abbia un suo specifico sistema elettorale deriva dall’impostazione anglosassone tradizionale, basata sulla common law, la legislazione derivata dalla consuetudine.
La stessa rivoluzione americana, come è stato sottolineato anche da Nicola Matteucci, è leggibile come una rivoluzione costituzionale, cioè come una rivoluzione che non rompe una continuità giuridica e non instaura un ordine nuovo, come invece avvenne in Francia rispetto all’ancien régime. In America, insomma, manca il principio, giacobino e napoleonico, secondo il quale le articolazioni locali vanno ricondotte ad un quadro generale di norme, obbligatorio per tutti; è per questo che fatti come l’iscrizione nelle liste elettorali o l’uniformità delle schede con cui si vota, per noi scontati e automatici, sono ignoti negli Stati Uniti. Quel che a noi spesso sfugge è la particolarità della cultura degli Stati Uniti, una cultura che influenza la stessa logica con cui sono state costruite le istituzioni.
Si dice, ad esempio, che gli Stati Uniti sono un paese individualista, ed è certamente vero che l’individualismo è molto forte, ma da sempre è coniugato con appartenenze (si pensi all’importanza che hanno le chiese, le associazioni, i gruppi) ed è questo ‘individualismo associazionistico’ a costituire l’ossatura concettuale che regge anche le istituzioni politiche. La struttura dell’elezione del presidente, per fare un altro esempio, fu pensata per i tredici stati che fondarono gli Stati Uniti, in cui essenzialmente votavano solo i proprietari di schiavi del Sud oppure i commercianti e gli agricoltori del Nord, ed è ispirata al principio della sostanziale autonomia dei singoli stati.
Da noi, adesso, si parla sempre molto bene del federalismo, ma bisogna ricordare che ‘federalismo’ significa anche garantire un peso significativo alle piccole realtà -nel caso americano ai piccoli stati- e non sempre è applicabile il principio di proporzionalità. Negli Stati la ripartizione dei seggi per la Camera dei rappresentanti è proporzionale alla popolazione, ma il Senato è composto da due membri per ogni stato. Questo vuol dire che la California o New York o il Texas, cioè stati grandi o grandissimi e molto popolati, hanno lo stesso numero di senatori del Vermont, del Rhode Island o dell’Alaska, che sono stati piccoli o pochissimo abitati. In base a questo stesso principio federalistico, il numero dei ‘grandi elettori’, che sono i delegati di ogni stato che votano per eleggere il presidente, è ...[continua]

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