Settimia Spizzichino, pensionata all'epoca dell'intervista, è mancata il 3 luglio del 2000.

A Roma allora c’era il coprifuoco, come dappertutto, e un silenzio di tomba, anche perché di mezzi ce n’erano pochissimi, neanche biciclette, ed erano pochi quelli che potevano avere una macchina. Insomma, c’era il coprifuoco per tutta Roma, e una bella notte, eravamo a casa, saranno state le tre o le quattro del mattino, quando si cominciò a sentire un rumore, un vociare. Nel ghetto dove abitavamo, i palazzi si affacciavano su una via lunga e stretta, così sporgendosi dalla finestra mio padre vide molte famiglie ebree scendere in strada coi tedeschi. Venivano portati via. La gente usciva anche dal nostro portone, presto ci rendemmo conto di quello che stava succedendo: i tedeschi stavano portando via tutti.
La nostra casa era grandissima, c’erano quattro stanze, i soffitti alti, erano belle, bellissime case, e grandi, c’erano poi due stanze, delle quali una entrava dentro l’altra, per cui pensammo di metterci tutti in quest’ultima stanza, lasciando tutto aperto, così se i tedeschi entravano avrebbero visto una casa vuota, disabitata.
E così abbiamo fatto. Ma a quel punto mia sorella, la più piccola, mentre noi stavamo dietro le persiane a guardare quello che succedeva, presa dal panico è scappata, è scesa giù (abitavamo al terzo piano), e all’ultima rampa di scale, prima di uscire, trovandosi due tedeschi davanti, ha avuto paura ed è tornata indietro verso di noi. Questi l’hanno seguita, e così ci hanno trovato.

Era la mattina del 16 ottobre, giorno della prima deportazione. Ci hanno radunato a 200 metri da casa, c’erano tante famiglie ferme là, ci hanno caricato su un camion e ci hanno portato al Collegio militare, una scuola vicino alle carceri. Eravamo 1.090 persone, e siamo rimasti lì due giorni con tutti i disagi, seduti nei banchi di scuola. Ci avevano detto di portarci qualcosa da mangiare, i soldi, l’oro, anche se non avevamo niente; solo di fame ce n’era tanta. Dopo un paio di giorni sono ritornati gli stessi camion, e ci hanno portato alla stazione Tiburtina, la seconda stazione di Roma. Là ci hanno caricati in questi carri bestiame, e siamo partiti per Auschwitz.
C’era mamma che diceva: "Ma tanto che ci fanno? Ci porteranno a lavorare nei campi di lavoro". Non avevamo capito, tanto era lo spavento, la paura; neanche il fatto che portassero via pure vecchi e bambini ci ha insospettito. "Che vuoi che ci facciano, mica ci ammazzeranno", continuava a dire mia mamma.

Mentre ci portavano via, mio padre riuscì a prendere una via traversa, mia madre lo vide e cercò di fermarlo, ma lui gridò qualcosa a proposito di mio fratello.
Voleva avvisare mio fratello, quello che non abitava con noi, perché era già sposato. Ma non ci riuscì, poco tempo dopo fu preso anche lui, era venuto a Roma per prendere un po’ di cose. Una sorella riuscimmo a farla passare per una cameriera, un’altra invece si salvò perché stava in un paese col marito. Si erano già nascosti, non dai tedeschi, ma per paura dei bombardamenti. Quel giorno, il 16 ottobre, lei però era venuta a Roma a trovarci, perché ci aveva rimediato un pezzo di abbacchio, un po’ di farina, aveva un fagottello per noi. Dalla stazione si era diretta verso casa, ma mentre era sul tram vide una famiglia di ebrei, che conosceva di vista, che piangevano. Così mia sorella si chiese che cosa potesse essere successo. Mia sorella guardava loro, e loro guardavano mia sorella, però non parlavano. Poi, a un certo momento questa famiglia notò che mia sorella aveva un fagotto, e le chiesero dove stesse andando: "Vado a trovare mamma. Le ho portato qualcosa", disse, e loro: "Non ti avvicinare al ghetto, stanno portando via tutti gli ebrei". Così quel giorno lei rimase sola, con questo fagotto, a girare per Roma chiedendo notizie, ma tutto quello che le dicevano era che avevano preso gli ebrei, nient’altro. Poi si fece notte, e tornò a casa, al paese.
A partire fummo mamma, mia sorella Ada, che era più grande di me, io, la sorella più giovane di me, poi mio fratello, e la bambina. Oltre a questi intimi della famiglia, partirono anche degli zii, dei cugini, parenti. Infatti quando arrivammo ad Auschwitz, scesi dai carri bestiame, vedemmo anche una sorella di mia mamma, che abitava lontanissimo, in campagna, ma erano andati a prenderla anche là, avevano l’indirizzo; in un altro carro c’era poi il fratello di mamma, che abitava vicino a noi nel ghetto, e la sorella.
...[continua]

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