Qual è il punto di partenza della riflessione che svolgi in questo libro?
La prima considerazione è che il processo di mondializzazione, di globalizzazione dell’economia, attraversa e dissolve le identità forti, radicate territorialmente. Credo che questo stia ormai nel destino dell’uomo. La seconda considerazione è che ovunque si sviluppano grandi processi di resistenza a questo cambiamento. Questi possono assumere sia l’aspetto del grumo rancoroso di un ritorno ai fondamenti, all’etnia, a una religione come ideologia dello scontro, alle ideologie passate, ma possono anche assumere la faccia della resistenza operaia alla ristrutturazione della grande fabbrica o in difesa del welfare, il che, ovviamente, fa una bella differenza.
Resta il fatto, però, che ci sentiamo stretti nella tenaglia tra pure ipotesi di resistenza identitarie e l’accettazione del "capitalismo come natura", un capitalismo che ti accompagna in forma suadente nel dissolvimento non solo dell’identità, ma anche del conflitto, della capacità di trasformazione.
Ciononostante non credo che l’alternativa possa essere così secca. Credo che tra il locale e il globale ci sia uno spazio, una possibile terza via. Di certo il locale da solo non basta: non c’è più alcuno spazio in cui si possa ritornare a una qualche tradizione perché tutto è attraversato dagli elementi di modernizzazione. Di converso, star solo nel globale, dentro alle reti lunghe della commercializzazione e della mondializzazione dell’economia, fa perdere la capacità di avere un riferimento di comunità, di luogo, di ambiente. Il localismo da solo produce grumi di barbarie e il cosmopolitismo da solo produce il dissolvimento della personalità. Allora, coniugare il localismo con il cosmopolitismo, resta il problema di fondo.
D’altra parte la stessa mondializzazione che sembra deterritorializzare tutto, continua ad aver bisogno di territorializzare la produzione e le conoscenze. Se ragioniamo sul Nordest, vediamo che il vero problema che si è creato è il distacco fra un’economia che sta sul ciclo della simultaneità fra locale e globale e la dimensione della politica, del sociale, della cultura, ancora soltanto locali. La media impresa, dal distretto degli occhiali alla marca trevigiana, segue la Benetton su una dimensione mondializzata della commercializzazione, sta sul locale e contemporaneamente nel mondo, mentre non si hanno ancora autonomie locali, forme di convivenza che facciano altrettanto. E’ questo scompenso che provoca la reazione identitaria territoriale, la riaffermazione dell’appartenenza locale.
Da questo punto di vista, proprio perché erano i due anelli deboli del modello precedente, penso che l’Italia e la ex Jugoslavia siano i due grandi laboratori di questo processo di dissolvenza dell’identità, di cui, se si vuole, la caduta del muro di Berlino, con la fine delle grandi appartenenze mondiali, non è stato che l’emblema. Da una parte si coagula il grumo rancoroso della comunità etnica e religiosa; dall’altra, quello, rancoroso anch’esso, della comunità economica come unico modello che sostanzia la tua identità.
Tu affermi una nuova centralità, quella del lavoro autonomo. Puoi spiegare?
Premetto che non sostengo che siamo di fronte alla fine del lavoro, anzi, affermo l’esatto contrario. Il grande cambiamento avvenuto è la transizione da un meccanismo sociale basato sulla scarsità e sull’uguaglianza, nel quale, cioè, il problema era combattere la scarsità con un di più di benessere che producesse uguaglianza, a un meccanismo sociale basato sull’antinomia abbondanza-selezione. Oggi abbiamo un’abbondanza di chances, di opportunità di lavoro, di informazione, di divertimento, di consumo, di comportamenti, ma più aumenta l’abbondanza e più aumentano i meccanismi selettivi per accedere a questi beni.
La riprova di ciò è data dall’egemonia culturale del lavoro autonomo: mentre prima si era "tanti in uno", tanti in una unica identità di classe e di conflitto, oggi si è "uno in tanti". La forma del lavoro individuale, del lavoro autonomo, la forma della partita Iva, produce solitudine e fa venire meno gli elementi di appartenenza collettiva. Fin quando il problema del benessere era un problema socialmente condiviso, lottare per il benessere produceva automaticamente anche socialità; quando il benessere diventa una risorsa individuale, quan ...[continua]
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