Anna Foa, storica, insegna all’Università La Sapienza di Roma. Il libro di cui si parla nell’intervista è Portico D’Ottavia 13. Una casa del ghetto nel lungo inverno del ’43 (Laterza, 2013).

Hai fatto un lavoro molto meticoloso di ricostruzione dei luoghi e dei nomi delle vittime del rastrellamento del ghetto ebraico del 16 ottobre 1943, concentrandoti in particolare su ciò che accadde a Portico D’Ottavia 13. Possiamo partire dalla casa?
L’edificio è particolare. È uno stabile assemblato all’inizio del Cinquecento da vecchie case precedenti, medievali, con la struttura tipica della Roma di allora: la bottega in basso, al primo piano l’abitazione, e questo grande cortile. È, in fondo, un palazzetto rinascimentale con queste arcate, questi portici, con le colonne di riporto, ed è una casa che ha avuto una lunga storia. Il fatto di essere stata assemblata si individua negli spazi, nei cunicoli, nelle deviazioni; si vede insomma che sono delle case diverse messe assieme. È il palazzo più bello della zona, a mio avviso, e poi è anche estremamente intrigante, misterioso, nel senso che ti domandi sempre cosa sarà successo in quel preciso angolo, ma anche perché ha proprio una struttura intricata: se guardi dall’alto vedi questi cortiletti e ti chiedi: ma dove sono? Questa via, Portico d’Ottavia, portava al mercato del pesce.
Possiamo raccontare cos’è successo quel giorno?
Devo specificare che nel 1943 era una casa abitata esclusivamente da ebrei (tranne la bottega di un falegname al piano terra) e tutta povera gente, perlopiù venditori ambulanti; persone che trascorrevano una vita molto in comune: le donne cucivano per il mercato (per esempio, facevano mutande per l’esercito) e si portavano le macchine da cucire sotto i loggiati, nel cortile. Quando arrivò la razzia del 16 ottobre solo quattro famiglie si erano nascoste; le quattro che abitavano al piano terreno. Chissà perché: forse si conoscevano bene e avevano deciso di andare via assieme, forse si sentivano più vulnerabili visto che bastava aprire un portone per entrare. Allora non c’era il portoncino di ferro che c’è adesso, ma solo un portone di legno molto scassato. Tuttora la casa viene chiamata "portonaccio” dai vecchi abitanti della zona.
In uno di questi appartamenti c’era una giovane donna che non abitava più lì, ma che sfortunatamente era rientrata a Roma per partorire, aiutata dalla sorella, che a sua volta aveva due bambini. Sono stati portati via tutti: lei incinta di nove mesi e la sorella con i figli.
Le altre tre famiglie si erano nascoste, per cui quando i nazisti entrarono, alle cinque e un quarto del mattino, non trovarono nessuno al pianterreno. Sfondarono le porte e questo mise sull’avviso gli altri. Cominciò una fuga generale.
In realtà non fu proprio una fuga generale perché furono soprattutto gli uomini a scappare, anzi quasi esclusivamente loro. Si pensava infatti che prendessero solo gli uomini, soprattutto i giovani, che quindi vennero fatti scappare dai tetti o dal retro. Restarono donne, vecchi e bambini, che si barricarono o fuggirono anch’essi. Ad esempio, la madre di uno dei miei testimoni, Gianni di Segni, mise una lastra di marmo, che era poi il tavolo della cucina, davanti al portone e accolse un’amica e una vicina di casa con i bambini, dopodiché scapparono dal retro.
Un’altra famiglia e i quattro figli maschi scapparono dai tetti e si rifugiarono nel convento di Sant’Ambrogio, che all’inizio diede ospitalità a molte persone, soprattutto uomini. Un’altra famiglia; due ragazze con padre e madre, scese le scale senza pacchi, senza niente e non venne fermata. I nazisti avevano i loro elenchi e l’ordine di entrare e bussare a quelle porte. Non erano inclini (a meno che uno non avesse l’aria del fuggitivo) a fermare la gente per strada e chiedere documenti. Avevano poco tempo: dovevano caricare le persone di cui avevano l’elenco nei camion; quando qualcuno passava vicino a loro non potevano sapere se erano ebrei o meno e così questa famiglia scappò. Altri fuggirono dal retro; altri ancora non sappiamo.
Molte vicende le ho ricostruite anche grazie a una lunghissima testimonianza rilasciata da Rosa di Veroli alla Spielberg Shoah Foundation.
Fa impressione che gli ebrei fossero tutti a casa nonostante il precedente dell’oro.
Molta gente pensava che l’oro avesse acquietato i nazisti. Una ...[continua]

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