Iginio Gagliardone è ricercatore presso il Programme in Comparative Media Law and Policy dell’Università di Oxford, si interessa al ruolo dei nuovi media nei processi di trasformazione politica nell’Africa sub-sahariana. In Tunisia ha contribuito a percorsi di formazione della società civile nell’uso delle nuove tecnologie; ha lavorato in Etiopia per conto dell’Unesco.

L’Africa non è certo il primo posto che viene in mente quando si parla di Information and Communication Technology (Ict). Manuel Castells l’ha addirittura definita "il buco nero della società dell’informazione”. Come è nato dunque il tuo interesse per l’Ict in Africa?
A cavallo del 2000 il successo di internet, la nascita di quella che chiamarono "new economy” e l’onda lunga della fine della guerra fredda stimolarono molte iniziative internazionali che volevano fare delle Ict uno strumento per lo sviluppo. C’erano ottimismo e una grande fiducia che innovazioni radicali potessero davvero contribuire alla riduzione della povertà e alla promozione della democrazia. In quegli anni ero all’università a studiare comunicazione e ad appassionarmi di nuove tecnologie. Questo spirito e alcune di queste nuove idee raccolte in rete mi colpirono e mi misi alla ricerca di qualche modo per metterle in pratica. Eravamo in pochi a occuparci di questi temi e per trovare qualche compagno di viaggio dovetti muovermi un po’ in giro per l’Italia. Intorno al 2002, con un gruppo di programmatori, antropologi ed esperti di cooperazione fondammo una piccola Ong, Pro-digi, e poco dopo organizzammo il nostro primo progetto in Tunisia, usando computer dismessi da pubbliche amministrazioni italiane su cui avevamo installato software libero per creare dei laboratori informatici e formare insegnanti e giovani studenti. Da allora sono passati dieci anni, in cui ho imparato che l’entusiasmo di inizio millennio era solo la versione più recente di uno spirito che ha radici ben più profonde e lontane, di un desiderio di trovare soluzioni tecniche a problemi sociali che ci portiamo dietro da molto tempo. Uno spirito che da una parte spinge ad innovare, ma dall’altra permette anche di illudersi.
Ho quindi cercato di conciliare la passione per le nuove tecnologie con un’analisi più approfondita dei contesti sociali, culturali e politici in cui si inseriscono. Le nuove tecnologie a volte rischiano di rendere le persone arroganti e un po’ superficiali, mentre è importante rimanere umili e saper riconoscere i molti modi in cui società diverse hanno sviluppato le proprie tecnologie della comunicazione, da twitter alla poesia.
L’Africa è un continente vasto e complesso, tanto che qualcuno lo declina al plurale "le Afriche”. Tu di quali paesi ti occupi? Come li hai scelti?
Mi occupo di Africa Orientale, soprattutto Etiopia, Kenya, Sudan e Somalia. Ma ho fatto ricerca anche in Tanzania, Ruanda, Uganda e in Ghana. Il primo paese dell’Africa Sub-Sahariana in cui ho lavorato è stato l’Etiopia dove, a essere sincero, sono finito un po’ per caso. Nel 2004 partecipai a un concorso bandito dalle Nazioni Unite in Italia i cui vincitori venivano assegnati a istituzioni che avevano fatto richiesta di particolari figure professionali. In quell’anno un istituto dell’Unesco cercava esperti di nuove tecnologie e sviluppo e così sono arrivato ad Addis Abeba. E da lì ho cominciato a viaggiare verso altri paesi dell’Africa orientale e ne sono rimasto affascinato.
In questi contesti, quali ti sembrano le esperienze più significative in termini di uso dell’Ict per la partecipazione politica?
L’estate scorsa ero a fare ricerca in Kenya, cercando di capire come la combinazione di radio e telefoni cellulari possa aiutare la partecipazione politica. Ho passato un paio di mesi in due radio locali, una a Kibera, uno slum di Nairobi, l’altra a Kisumu, sul lago Vittoria.
Quasi ogni giorno andavo nello studio e partecipavo al talk show del mattino, registrando le interazioni tra la radio e la comunità locale, attraverso telefonate e sms in trasmissione, interviste ai giornalisti e interviste agli ascoltatori, soprattutto quelli più attivi. Un po’ alla volta il rapporto che abbiamo instaurato con i giornalisti e alcuni membri delle comunità locali è diventato molto forte, ma hanno iniziato a emergere delle dinamiche abbastanza diverse da quelle che ci aspettavamo. La moltiplicazione delle radio locali e la proliferazione dei telefoni cellulari hanno sicuramente creato nuovi spazi, potenzialmente ...[continua]

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