Daniele Garota vive con la sua famiglia in un casolare a Isola del Piano nei pressi di Urbino dedicando gran parte del suo tempo alla ricerca e approfondimento dei temi della fede. Tra i suoi libri Una fede difficile e povera (Edb), Fame di redenzione (Paoline).

Puoi raccontarci come nasce la tua ricerca?
Nasce dalla mia esperienza di giovane cresciuto in una famiglia povera di contadini dove tutto era ridotto all’essenziale. E in quell’ambiente mia mamma mi ha trasmesso la fede. Una fede solida, che avevano certi contadini semi analfabeti con un forte legame con il soprannaturale e che proveniva in maniera spontanea dalle loro radici e tradizioni. Tutte le sere -io ero bambino- mi diceva: ricordati di dire una preghiera. Questo suo modo di essere mi ha insegnato la costanza e la perseveranza nelle cose. Questa era mia mamma.
Poi a un certo punto della mia vita, ero un adolescente, incontrai Sergio Quinzio, quest’uomo assai strano, con la barba rossa, che veniva dalla città e di cui si diceva fosse uno scrittore, un giornalista, un uomo in pensione che aveva lavorato nella Guardia di Finanza, che si era trasferito qui, a Isola del Piano. Ebbi l’ardire di andare a bussare alla sua porta e scoprii un uomo che aveva un grande bisogno di dialogare, di conversare e di trasmettere qualcosa che lui aveva a cuore, a qualcuno di una generazione diversa. Ecco perché Quinzio non è stato solo un intellettuale. La definizione più netta e chiara che è stata data di lui è quella di un filosofo, Salvatore Natoli, che ha detto: "Quinzio è un credente che scrive”. Prima di tutto era un uomo che credeva appassionatamente a delle cose che appartenevano alla tradizione ebraico-cristiana  e che lui ha avuto il merito di ripercorrere. Riteneva la fede sepolta da troppe cose che non c’entravano più con essa. Lui ha avuto il coraggio e la forza di disseppellirla, riscoprendo quel nucleo essenziale che apparteneva al Cristianesimo primitivo, riproponendolo in una chiave moderna e dicendo che la modernità stessa era il frutto di quella fede iniziale. Secondo Quinzio la stessa secolarizzazione non è stata altro che l’esito di quella sete di redenzione che animava l’ebraismo e le prime comunità cristiane. Ecco, di questo i suoi libri hanno parlato.
Avvicinandomi a lui ho capito queste cose piano piano perché all’inizio non avevo dimestichezza con la teologia o con i libri di filosofia. Anzi, io venivo da una formazione artistica, ho fatto l’Istituto d’Arte, ero bravo a disegnare. Avevo cominciato a produrre dipinti, incisioni e avevo anche lavorato parecchio. Successivamente mi sono anche diplomato all’Accademia di Belle Arti, ma non ho mai fatto domanda per insegnare.
Tutti i miei coetanei, finita l’Accademia, sono andati ad insegnare, ma io non ho mai avuto questo desiderio. Ne avevo sempre avuto un altro: quello di costruirmi uno spazio, un luogo legato alla terra e alla dimensione delle mie radici contadine, dove formare una famiglia e avere dei bambini.
Molti mi dicevano che ero pazzo a vent’anni a pensare ad una famiglia e a dei figli. Quinzio è stato uno dei pochi, insieme a mia nonna, a dirmi: "Se ritieni che sia giusta per te la fedeltà a una donna e a una famiglia, sappi che questa è una delle cose più belle che ci possano essere”.
Quindi ho costruito questo spazio di vita, che mi lasciasse la libertà di occuparmi delle cose che Quinzio mi trasmetteva e lì ho cominciato a frequentare libri, domande, e con una certa passione. Ho poi finito per abbandonare la mia ricerca artistica per iniziare, con un certo impegno, quella religiosa, esistenziale, che è poi sfociata nei libri che ho scritto e nell’attività, che faccio volentieri, di andare in giro a parlare ai bambini e agli adulti.
Il rapporto tra te e Quinzio aveva un sottofondo pedagogico come quello che intercorre tra il discepolo e il suo maestro..
Quinzio lo scrisse nell’introduzione al mio primo libro, Una fede difficile e povera, commuovendomi molto. Scrisse che aveva scoperto in me una sete di verità e che avvertiva il mio bisogno di capire cos’è la vita. Ha cercato di trasmettermi a piccole dosi delle cose. Ricordo che mi passava un libro e mi diceva: "Leggilo ma non farti convincere”. Non mi passava un libro giusto, ma un libro dal quale dovevo capire da solo cosa era giusto e cosa che non lo era.
In fondo, non è questo il vero insegnamento? Imparare a capire la differenza tra ciò che è giusto da ciò che non lo è, e poi scegliere il gi ...[continua]

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