Enzo Rullani
Intanto io proverei a vedere l’aspetto positivo di ciò che sta succedendo. Potremmo anche dire che quello che è successo, in fondo, è frutto di un’incapacità delle due forze, di destra e di sinistra, di adeguarsi ai tempi nuovi. Abbiamo sempre detto che queste forze politiche le abbiamo ereditate dal fordismo, o dal Novecento, come si dice adesso, e che avrebbero avuto una loro vitalità se si agganciavano ai soggetti dell’innovazione. Invece cosa abbiamo visto? Che il governo della destra non ha fatto le liberalizzazioni (che erano l’a b c di un governo di destra che doveva agganciare e liberare le forze dei soggetti nuovi), e che il governo della sinistra non ha valorizzato il popolo degli innovatori che è fatto dai lavoratori precari, dai ragazzi giovani, dai professionisti della conoscenza, dalle piccole imprese che si arrabattano per inventarsi cose nuove, ecc.
Ma questa incapacità non caratterizza solo i partiti, ma tutte le forze di rappresentanza degli interessi. Abbiamo una rappresentanza sindacale ancora divisa in organizzazioni che si rifanno a partiti che non esistono più, il che ci dà il senso dell’inerzia della conservazione organizzativa. Lo stesso vale per la Confindustria, per la Confartigianato. C’è stata una rivoluzione nella vita delle imprese, invece le organizzazioni sono rimaste ancorate alle loro vecchie categorie. Ma pensiamo pure alla pubblica amministrazione, a com’è insediata, in connessione gerarchica, nel comune, la provincia, la regione, e, sopra a tutti, nello stato. Ma la vita delle persone e anche delle imprese si svolge con questa gerarchia organizzativa? Per questi la gerarchia dello spazio è ormai tutta diversa, abbiamo le reti che vivono intensamente in un punto del locale, poi vivono nel globale, e casomai hanno degli spazi metropolitani. In realtà le istituzioni sono rimaste ferme, non hanno seguito la vita reale.
Quindi il fatto che cambi qualcosa di duro, nella vita anche della sinistra, e un po’ di tutta la politica, è un bene perché sarà una spinta a prendere atto della divaricazione esistente tra il mondo reale che evolve e il mondo delle rappresentanze politiche, associative e sindacali, che non evolve. D’altra parte se si facesse un referendum fra gli italiani per chiedere se la politica sta facendo il suo mestiere si otterrebbe il 100% di no. E perché? Perché la politica esiste e ha una funzione se è costruzione del futuro. Non è amministrazione delle piccole beghe, perché quelle si possono demandare alla burocrazia o alla politica minore, ma la politica con la P maiuscola è costruzione del futuro, è una scelta che ciascuno di noi fa rinunciando a far da solo il proprio futuro perché ha capito che per tutta una serie di cose è meglio farlo insieme agli altri. Dopodiché si va a scegliere con quali altri associarsi per dar mano a dei progetti collettivi. Tutto qua.
Ora, la politica ha perso completamente la prospettiva della costruzione del futuro, tant’è che i programmi politici sono tutti basati su concetti tipo l’equità, la redistribuzione, tutte cose che riguardano l’esistente, non la costruzione di un mondo nuovo.
Però se noi guardiamo invece a come evolve il mondo vediamo che evolve verso il nuovo, che il mondo dei giovani è profondamente diverso da quello dei nonni. Allora, questo nuovo nasce senza patria, orfano, perché la dimensione collettiva non c’è o ce n’è poca. La politica, cioè, diventa conservatrice, presidia l’esistente. Se non c’è più questa spinta a seguire le cose nuove, gli interessi emergenti, il fatto che se arrivano i cinesi cambia tutto e quindi ti devi dar da fare; se, alla fine, non c’è questa dimensione creativa, trasformatrice, la politica diventa mediazione tra le forze che già hanno occupato il territorio. E questo ne riduce il fascino. Se si domanda ai giovani che fascino ha la politica oggi nella loro vita diranno “zero”…

La seconda considerazione riguarda espressamente la sinistra, che a mio avviso si trova ancora impantanata nella vecchia doppiezza togliattiana, per cui tu, nel mentre costruivi il socialismo intanto ti adattavi a quello che c’era, quindi facevi i compromessi con l’esistente senza troppo stare a vedere... Fai, cioè, il tatticismo più puro: se da un lato c’è un grande ideale, la cui realizzazione è demandata al domani, l’adattamento tattico alla situazione presente è giustificato.
Poi il grande ideale è sparito, ma non se n’è fatto un altro, e questo è già un grande errore, per ...[continua]

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