Arturo M. L. Parisi è ordinario di Sociologia politica alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Bologna, è vicepresidente dell’Associazione Il Mulino ed è Presidente della Società Italiana di Studi Elettorali.

Lei studia i comportamenti elettorali, a suo tempo coniò l’espressione “voto di appartenenza”. Come vede i cambiamenti che le ultime elezioni hanno messo in evidenza? E il voto di appartenenza è finito?
Di fronte al dato elettorale, e ancor più di fronte ai cambiamenti, credo che l’errore più pericoloso dal quale bisogna guardarsi sia quello di confondere il livello del risultato istituzionale (cioè a dire il cambiamento dei rapporti di forza parlamentari e delle relazioni tra partiti) col livello del comportamento di voto. E così come prima, quando vigeva la legge elettorale proporzionale, dall’apparente immobilità del risultato istituzionale (dal fatto cioè che a dispetto di tutte le attese la forza parlamentare dei singoli partiti finiva comunque per modificarsi di pochi punti percentuali) eravamo indotti a supporre una corrispondente immobilità nei comportamenti di voto e negli orientamenti politici, ora rischiamo di fare l’errore opposto. Poiché la nuova legge elettorale enfatizza a livello istituzionale i cambiamenti, potremmo essere indotti ad enfatizzare oltre il lecito il cambiamento avvenuto nei comportamenti e negli orientamenti dell’elettorato. Rischieremmo così di contrapporre un’era della stabilità ad un’era del cambiamento come se negli orientamenti politici degli elettori fosse scattato un qualche misterioso interruttore, senza riuscire a individuare poi il perché questo interruttore sia scattato all’improvviso proprio ora. Credo invece che gran parte delle vicende delle quali parliamo debbano essere lette come l’esito di processi di lungo periodo nei quali è difficile individuare precisi spartiacque. Pur all’interno di un processo di trasformazione che dal dopoguerra non ha mai conosciuto soste, il 68 resta tuttavia l’unico punto di frattura ancora riconoscibile.
Ciò che nel dato elettorale viene oggi a definitiva evidenza è la crisi delle relazioni tra partiti ed elettori prodotta dai movimenti sociali e politici che si svilupparono nel nostro paese tra la metà degli anni 60 e la metà degli anni 70. In particolare il cambiamento che diviene oggi visibile a livello di massa è riconducibile alla profonda incrinatura introdotta da quei movimenti in quel tipo di relazione che chiamiamo di appartenenza, che aveva dominato fino a quel momento il comportamento di voto. Non posso dimenticare d’altra parte che già in passato l’errore di confondere nell’analisi il livello del risultato con quello dei comportamenti e degli orientamenti fu causa di gravi equivoci interpretativi. Penso al risultato delle elezioni del 1975, a quello che fu definito il “terremoto del 15 giugno” quando assistemmo ad un cambiamento elettorale che per le sue dimensioni è del tutto paragonabile all’ultimo risultato elettorale.
Anche allora c’era stato infatti un cambiamento nella normativa elettorale che aveva enfatizzato nel risultato la portata effettiva del cambiamento generale. A causa dell’abbassamento della età di voto dai 21 ai 18 anni erano andati improvvisamente “in linea” tutte in una volta sette classi di leva elettorale. E quali classi! Quelle che avendo vissuto in prima persona la rivoluzione di valori e di relazioni che chiamiamo ancora con il nome di “68”, accomunate dalla rottura con i riferimenti partitici precedenti e da una conversione politica verso sinistra. L’aumento di 5 punti percentuali a favore dei partiti di sinistra, polarizzatisi in gran parte attorno al Pci, portò i più ad attribuire il segno politico che era esclusivo di una sezione minoritaria (quella giovanile) alla massa dell’elettorato. Un abbaglio del quale fece presto giustizia il voto del 76 che mostrò appunto come fosse imprudente vendere il grasso della balena democristiana senza averla prima catturata. Fuorviati dalle interpretazioni del cambiamento del risultato la cui portata era in effetti tutto sommato meno rilevante di quel che appariva, si tardava a prendere consapevolezza di un cambiamento ben più rilevante che dietro di esso andava sviluppandosi. Esso non riguardava tanto la destinazione partitica del voto, prima democristiano e in quel momento comunista, quanto appunto il tipo di relazione che l’elettore intrattiene con il partito per il quale vota.
Per questo motivo, con la collaborazione d ...[continua]

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