1 novembre 2008. Poter votare
Prima di lasciare l’aeroporto di Bangalore, lo scorso martedì, Susan Scott-Ker ha controllato la posta per l’ultima volta. Niente da fare.
Lei e il marito hanno atteso per un mese la scheda per votare dall’estero, ma non è mai arrivata e ora si stava facendo strada il timore di non fare in tempo. Così, dopo un ultimo tentativo con il consolato hanno deciso di comprare il biglietto per rientrare a New York. Sono prima andati a New Delhi, con un volo interno, e da lì a Chicago, fino ad atterrare a La Guardia. Un viaggio di oltre 15.000 km, durato 22 ore, al costo di circa 5000 dollari.
Era da almeno 50 anni che gli americani non mostravano un tale interesse e passione per le elezioni, spiegano gli esperti. Nel caso di Susan, originaria della Nuova Zelanda e del marito, nato in Marocco, questa è un’occasione straordinaria. E’ la prima volta che votano, sono diventati cittadini americani giusto un anno fa. Dopo esser vissuti tredici anni con la green card -“e pagando un sacco di tasse, senza aver voce in capitolo”- è arrivato il loro momento
Susan è stata mandata a Bangalore dalla multinazionale per cui lavora, si è tenuta aggiornata sulle varie scadenze e procedure, ma troppo tardi si è accorta che avrebbe dovuto inoltrare un’ulteriore domanda. Ha cercato di rimediare in tutti i modi, ma niente da fare. La burocrazia ha chiuso tutte le porte a soluzioni alternative. Susan però non si è persa d’animo, e ferma nella sua convinzione che non si può delegare ad altri in queste faccende, perché “l’apatia è incompatibile con la democrazia”, dopo un attimo di esitazione ha fatto le valigie ed è tornata a casa a votare Obama.
(www.nytimes.com)

15 novembre 2008.
Diario di viaggio in Israele-Palestina
Al seguito di un tour organizzato dal gruppo britannico che sostiene l’Icahd di Jeff Halper, Paola Canarutto scrive:
L’altro ieri Y., parlando delle prospettive, mi diceva di aver detto al capitano, prima che lo arrestasse: “Non c’è nessuno oggi che voglia buttare gli ebrei a mare. Anche Hamas oggi è perché Israele torni ai confini del ’67, in cambio del riconoscimento per quel che si è preso nel ’48. Ma voi, cosa continuate a fare? A costruire colonie, a rubare terra e acqua... Voi non volete la pace: siete voi che non la volete”.
Ieri incontro con due di Physicians for Human Rights (bravissime). Hanno condannato senza mezzi termini la Israel Medical Association, che nella pratica non rifiuta la tortura. Dovrebbe, hanno detto, radiare dalla detta Association i medici che in qualche modo vi prendono parte. Non lo fa, limitandosi a una condanna general-generica della medesima.
Hanno parlato anche della richiesta fatta dai servizi segreti ai parenti dei malati di Gaza di spiare nel vicinato, perché al malato sia concesso l’ingresso in Israele (o all’ospedale Makassed, a Gerusalemme Est), per le cure. Dicono che in precedenza la richiesta era fatta a chi da Gaza andava a lavorare in Israele; ora che ciò non è più permesso, i servizi segreti devono far conto sui parenti dei malati.
Quindi, guidati da Jeff, a vedere le nuove colonie intorno a Gerusalemme.
Di queste ho già scritto ripetutamente. Ho avuto la conferma della mia percezione di un loro aumento: in un anno, entro la città vecchia ce ne sono due nuove. Jeff ha spiegato che cercano una continuità con il quartiere ebraico, passando dai tetti. E, nel quartiere ebraico, si sta costruendo una nuova sinagoga gigantesca, con la scusa che prima lì ce n’era un’altra.
Fuori dalla Città Vecchia, impressiona il cambiare dello stato delle strade nei dintorni e dentro le colonie, e nelle zone (ancora) palestinesi. Le prime hanno strade larghe e ben tenute, con marciapiedi. Nelle seconde niente di tutto questo, e la situazione ricorda quella dei sobborghi di Nairobi. Jeff ha raccontato che, stante che ai palestinesi non è dato il permesso di costruire, anche i prezzi di queste case quasi diroccate sono altissimi. La popolazione cerca di spostarsi al di là dei confini metropolitani; solo che così perde la carta di identità blu, dei residenti a Gerusalemme, e con questo le possibilità di lavoro entro i confini israeliani. Oltre che le possibilità di spostamento -perché i residenti in Cisgiordania sono chiusi fra un posto di blocco e l’altro.
Ho comprato Haaretz, con i supplementi del venerdì. C’era in prima pagina un articolo sull’espansione delle colonie, firmata da Barak malgrado la Road Map dicesse tutt’altro. Dal punto di vista informativo, quindi, niente da dire. Mi hanno colpito (molto sfavorevolmente), invece, la “pari dignità” data a Gideon Levy sui pescatori a Gaza e a commentatori di destra. Come dire: questo e quello, per me pari sono. In prima pagina, un gigantesco avviso della Jewish Agency for Israel, che organizza una conferenza con la World Zionist Organization; e, fra gli ospiti invitati a parlare, in plenaria: su Jewish Demography, Soffer; quindi, di nuovo in plenaria, Netanyahu; e, per finire, Olmert. In seconda pagina, un avviso ancora più gigantesco, contro l’ipotesi di due stati perché the Palestinian peoplehood is a fiction e The “Two State Solution” in an invention of the Arabs - to deprive Israel of Judea and Samaria (and Gaza) (copio alla lettera). Firmato, Landau, ex ministro, e altri cinque, di cui tre verosimili esponenti di una casa editrice di (estrema) destra; e un sito parimenti di estrema destra www.justpeaceforisrael.com.
In altre parole, ho avuto l’impressione che si lasci pubblicare a Gideon Levy quello che vuole, come a fare da coscienza agli israeliani e a dimostrare al mondo (i suoi articoli compaiono nell’edizione inglese) che gli israeliani una coscienza ce l’hanno. Poi, tutto va avanti per la solita strada: espansione delle colonie, ecc.
I maggiori contatti sono con l’intellighenzia ebraica israeliana; come se il conflitto fosse fra israeliani di destra e israeliani di sinistra, i primi contro i palestinesi, i secondi a favore, con questi ultimi a fare da ospite non in grado di far sentire una parola propria. Ho paura che il problema sia strutturale, legato cioè a una carenza di leadership palestinese per fatti ovvi e concreti: Israele, quelli che non ha ammazzati, li tiene in carcere…
(Paola Canarutto)

20 novembre 2008. Lettera dall’India
In una bella lettera pubblicata sull’International Herald Tribune, Anand Giridharadas racconta che qualche tempo fa la madre gli ha inviato un curioso messaggio: “Ma cosa ci facciamo qui io e papà?”.
Anand cinque anni fa è tornato a vivere a Verla, in India, il paese che i suoi genitori lasciarono negli anni ’70 con la speranza di costruirsi un futuro migliore. Anand non è l’unico. Pare che stiano aumentando i giovani indiani-americani che ripercorrono al contrario la strada intrapresa dai loro genitori. Solo che questo processo solleva appunto una domanda che ha dell’assurdo: se i nostri genitori hanno lasciato l’India sacrificandosi per noi, per offrirci una vita diversa, se hanno sgobbato risparmiando all’inverosimile per regalarci un futuro più lieve, cosa succede se noi invece decidiamo di emigrare nel luogo che loro hanno laciato? E soprattutto: “Se noi siamo qui, loro cosa ci fanno là!?”.
Quando i genitori di Ananad partirono, l’America era il paese delle opportunità, così suo padre e sua madre, appena sposati, si imbarcarono per questa nuova avventura. Si trattava di imparare una nuova lingua e ricominciare tutto daccapo, inventarsi una nuova vita. Andò molto bene: suo padre divenne un consulente, poi un imprenditore, poi direttore delle risorse umane, fu addirittura candidato per un Ph.d. Sua madre, prima casalinga, imparò a lavorare la ceramica e ora insegna quest’arte in una delle migliori scuole di Washington.
Anand ancora non si spiega cosa l’ha spinto a questo curioso “ritorno”. Certo ricorda che la prima impressione sull’India confermò lo stereotipo di chi l’aveva lasciata: “Il paese delle impossibilità”.
E tuttavia le cose stavano cambiando, in India il boom economico stava portando liberalizzazioni, privatizzazioni, una inedita globalizzazione. Il fatalismo tradizionale lasciava il posto a nuove speranze. Intanto in America arrivava l’11 settembre, l’Afghanistan, l’Iraq, Katrina, l’altalena del petrolio, il cambiamento climatico, la crisi finanziaria e un certo comprensibile pessimismo. Insomma, le spinte attrattive e repulsive si stavano invertendo e molti di questi “figli adottivi” dell’India si sono fatti catturare da questo nuovo spirito e, come i loro genitori, sono partiti e si sono reinventati una vita.
(www.iht.com)

21 novembre 2008. E adesso?
E. J. Dionne Jr sul Washington Post di oggi affronta un interrogativo che circola già da qualche settimana nell’entourage di Obama e tra i suoi sostenitori: che ne sarà ora di quell’incredibile movimento che per mesi si è mobilitato fisicamente e tramite la rete per promuovere la sua elezione?
In passato, finita la campagna elettorale, tutto l’apparato smobilitava, un po’ come i tendoni dei circhi. Ma Obama, il primo presidente “organizzatore di comunità”, sa che il modo in cui è riuscito a vincere è quasi altrettanto importante e cruciale della vittoria stessa. E dunque, che ne sarà dello straordinario e inedito network che ha creato? I luogotenenti di Obama avanzato varie ipotesi: quell’apparato potrebbe essere integrato nel Partito democratico ed essere gestito tramite il Democratic National Committee. D’altra parte, molti dei suoi collaboratori più stretti, come David Plouffe, che ha gestito l’intera campagna, vengono dalle file della politica tradizionale. Tuttavia è lo stesso Plouffe ad avere delle perplessità, consapevole degli aspetti innovativi di questa esperienza.
Steve Hildebrand, stratega della campagna, mette poi in guardia sul fatto che molti membri del network provano una certa antipatia per i partiti poolitici tradizionali, perché sono giovani, perché sentono una debolissima “lealtà” al partito, perché sono indipendenti o addirittura repubblicani! Di qui l’idea di dar vita invece a un organismo indipendente, con rapporti di amicizia con il partito, ma paralello e autonomo, un’entità separata. I sostenitori di Obama, da parte loro, si stanno interrogando su come integrarsi nelle comunità in cui vivono con le loro reti organizzative, ipotizzando forme di servizio civile o comunque di impegno. Per dire, il sito di Obama ora sta promuovendo una raccolta fondi per gli incendi in California. Intanto Plouffe lo scorso martedì ha pubblicato sul sito una serie di domande a cui i supporter di Obama sono stati invitati a rispondere. La prima delle quali non poteva che essere: “Come vorresti che questa organizzazione procedesse nei mesi e anni a venire?”.
Nel frattempo i sostenitori sono invitati a impegnarsi su quattro obiettivi: aiutare la nuova amministrazione a far passare alcune leggi tramite la pressione locale; appoggiare i candidati locali e nazionali che condividono la visione di Obama sul paese; addestare nuovi supporter; lavorare nel locale sulle questioni che la comunità ha a cuore. E. J. Dionne, nell’articolo, fa notare come curiosamente dalla lista manchi la parola “democratico”. Ad ogni modo l’urgenza di questa stessa discussione segnala come questa campagna in fondo abbia ridefinito i contorni della politica americana.
Preservare questo patrimonio di relazioni e rimetterlo in gioco è sicuramente una priorità per un uomo che vede nella mobilitazione dal basso non solo un mezzo strumentale, ma anche un modo di trasformare la stessa democrazia.
(www.washingtonpost.com)

15 novembre 2008. Da un blog
Dal blog di Sunshine, adolescente irachena.
La settimana scorsa, stavo andando a scuola e la strada era bloccata dal traffico, così l’autista ha spento la macchina e si è fermato ad aspettare. Dopo circa 40 minuti, un uomo ci ha detto che la strada era stata chiusa, che non saremmo passati di lì. Così ci siamo messi a cercare una strada secondaria libera, ma senza successo… l’autista mi ha spiegato per che strade passare per accompagnare le altre a scuola (io sono la più grande), così io le più piccole ci siamo messe in cammino… Abbiamo dovuto scavalcare il filo spinato!! Stavamo chiacchierando, quando improvvisamente, in mezzo a un gruppo di soldati, uno armato di mitragliatrice si è voltato nella nostra direzione: eravamo solo noi e loro! Ci siamo bloccate, senza sapere cosa dire, non sapevo nemmeno se il soldato era iracheno o americano… un altro soldato ci ha fatto cenno di proseguire, il mio cuore batteva così forte! La strada era deserta, i soldati erano armati, e noi eravamo quattro ragazzine! Ero preoccupata perché in quel momento ero io la responsabile di quelle ragazzine, così le tiravo per il braccio…
Siamo arrivate a scuola esauste: molti studenti non si erano presentati, e noi non sapevamo bene cosa fosse meglio, se restare a scuola o tornarcene a casa! Alla ricreazione, io e la mia amica stavamo chiacchierando quando all’improvviso c’è stata una grande esplosione. Abbiamo subito aperto le finestre, e abbiamo sentito molti spari. Le mie compagne di classe e le altre sono scappate in classe, noi non sapevamo bene cosa fare: restando in classe, c’era il rischio che un’altra esplosione avrebbe potuto distruggere i vetri. Uscendo, avremmo potuto essere colpite dalle pallottole vaganti, che ricadevano nel cortile della scuola. Ci siamo nascoste dietro la parete; la mia amica ha detto: “Devo sedermi, non riesco a stare in piedi” così si è seduta per terra. Le gambe non la reggevano…
Le altre si sono agitate, correvano ovunque; gli insegnanti hanno fatto del loro meglio per controllare la situazione, ma è davvero difficile calmare 1000 ragazzine in preda al panico! Quello stesso giorno c’è stata una sparatoria nei pressi di un’altra scuola… Lì è stato ucciso un ragazzino, mentre un altro è rimasto ferito.
Non sai mai se sarai la prossima vittima: è terribile passare ogni giorno a domandarsi se verrai ucciso, tu o qualcuno della tua famiglia. E’ spossante; a volte non riesco a controllarmi, comincio a piangere e piangere perché non posso fare nulla per proteggere la mia famiglia. Non mi preoccupo tanto per me, quanto per loro. Prego giorno e notte… quando vedo i miei amici, rimasti orfani, prego Dio perché protegga i miei genitori e i miei familiari. L’unica cosa che desidero è che il mio Paese sia un posto sicuro…
(livesstrong.blogspot.com)