18 settembre 2008. Licenziati con un sms
Pare che la notizia, ai dipendenti di Lehman Brothers, sia arrivata domenica sera. Con un sms. In tutto il mondo sono 26.000 i dipendenti della grande banca d’affari (18.000 solo fra Londra e New York) che da un giorno all’altro si sono ritrovati in mezzo ad una strada.
“E’ incredibile, domenica giocavo a tennis con un mio collega, quando siamo tornati negli spogliatoi ci è arrivato un sms, che diceva di presentarsi l’indomani al lavoro, anche se era l’ultimo che facevamo alla Lehman. E ora il mutuo chi lo paga? Considerando che il mio stipendio per l’80% era variabile e non vedrò un centesimo di quei 70.000 dollari che avrei dovuto ricevere a dicembre...”.
E’ stato il commento di un giovane broker della banca d’affari, che probabilmente per la sua giovane età riuscirà a ricollocarsi. Ma per chi ha già passato i 45-50 anni, e in Lehman Brothers non erano pochi, sarà sicuramente più dura. Anche perché nelle banche d’affari lo stipendio è sì alto (dai 100.000 agli 8-900.000 dollari per broker ed analisti fino agli stipendi milionari per i top manager) ma in gran parte è composto da una parte variabile, legata cioè alla produttività e agli interessi sulle operazioni fatte, e questo, secondo alcuni, può essere stato uno dei motivi che ha scatenato la speculazione sempre più aggressiva e spregiudicata da parte dei dipendenti e dei manager delle banche d’affari.
(www.finanzalive.com)

Chi è un terrorista?
Si discute della definizione da dare alla parola “terrorista”. Forse è utile fare degli esempi.
“Impiccate quanti kulachi… almeno cento, rendete pubblici i loro nomi, requisite tutto il grano in loro possesso, prendeteli in ostaggio e fategli di tutto e fate sapere intorno quello che avete fatto, che la gente veda, tremi e sappia… accusate ricevuta di esecuzione. Post scriptum: trovate gente davvero dura” .
“Bisogna picchiare sulla testa, picchiare senza pietà. Si tratta di una guerra lunga, tenace e disperata. Come si vince la guerra? Si vince con l’esistenza e la giustificazione del terrore…”
“Caro compagno Kurski, a complemento della nostra conversazione le mando un abbozzo di paragrafo supplementare del codice penale. Il pensiero fondamentale è chiaro: esporre apertamente il concetto di principio e politicamente veritiero, e non solo strettamente giuridico, che motivi l’esistenza e la giustificazione del terrore, la sua necessità ed i suoi limiti, occorre farlo…”
Ecco, chi scriveva questi ordini di servizio era sicuramente un terrorista. E anche il più grande rivoluzionario del 900: Lenin.

23 settembre 2008. Birra a metà prezzo
Nel blog dell’editore di Foreign Policy oggi si legge: “Se sei un lavoratore o un ex lavoratore dell’Aig o della Lehman Brothers, c’è uno sconto speciale per te a Chicago: potrai affogare i tuoi pensieri in una birra a metà prezzo. Il ristorante Fifty/50 offre uno sconto del 50% sulle consumazioni di bar e ristorante per i clienti che possono dimostrare di lavorare, o aver lavorato, per la miracolata Aig o la Lehman Brothers in bancarotta”.
(http://blog.foreignpolicy.com)

3 ottobre 2008. Il lavoro necessario
Malgrado le statistiche ormai si accumulino, spesso si sente discutere di immigrazione come se l’arrivo degli immigrati fosse un sovrappiù, una concessione ai loro bisogni, un costo per il paese di accoglienza, un atto di bontà e di altruismo nostro nei loro confronti.
In effetti ogni migrazione è determinata da cause e interessi, in accordo e in conflitto tra loro. Ci sono persone che cercano il benessere, o almeno un malessere minore; persone che cercano la libertà, la conoscenza, l’avventura; persone che fuggono dalla fame o dalla morte; persone che ne approfittano e sfruttano i migranti prendendogli tutto, anche la vita; persone che hanno bisogno di lavoratori e assumono i migranti; persone che li sfruttano; persone che li trattano onestamente; persone che li trattano e li accolgono come fratelli; persone che se ne innamorano.
C’è sempre un’area di ambiguità, di anomia, di dolore, nei grandi mutamenti sociali. C’è sempre, in ogni migrazione, una costrizione al crumiraggio. Cercare una sintesi semplice è una follia, come cercare di tracciare un quadro valutativo in bianco e nero del movimento operaio, o delle grandi rivoluzioni, o delle rivolte anticoloniali, passate e presenti.
Ma, al di là della complicazione delle motivazioni soggettive, non si può ignorare che in un paese come l’Italia, in cui la fertilità ha cominciato a cadere nel 1964 e si è assestata, dal 1978, trenta anni fa, poco sopra la metà della riproduzione semplice e non si è mossa di lì, l’immigrazione è una necessità demografica assoluta del paese ospite.
Niente immigrazione, niente lavoro.
Ogni anno, da una diecina di anni, la generazione che si pensiona è quasi doppia di quella che raggiunge l’età di lavoro legale.
A inizio secolo uno studio dell’Onu (2001, p.122) stimava in circa 13 milioni l’immigrazione necessaria a mantenere costante la popolazione totale fino al 2050, con un ovvio peggioramento del rapporto tra popolazione in età attiva e popolazione dipendente, e in circa 20 milioni l’immigrazione necessaria a mantenere costante la popolazione in età di lavoro (15-64 anni), con un leggero aumento della popolazione residente e un minore peggioramento del rapporto tra attivi e residenti.
Al momento questo è lo scenario che si sta realizzando. La caduta della popolazione in età di lavoro ha consentito la deindustrializzazione in Piemonte con una diminuzione della disoccupazione, dopo l’impennata degli anni immediatamente successivi all’80.
A fine 2007 in Piemonte la popolazione residente in età di lavoro, inclusi i migranti, era poco meno di 2.900.000; quella tra 0 e 50 anni era poco meno di 2.600.000, 300.000 di meno.
I 2.600.000 non possono che diminuire nei prossimi 15 anni, per emigrazione o morte, perciò la popolazione in età di lavoro derivante da quella attualmente residente diminuirà di almeno 300.000 unità, verosimilmente parecchio di più. Provvidenzialmente, il saldo tra stranieri cancellati e stranieri iscritti nelle anagrafi del Piemonte l’anno scorso è stato di circa 20.000 unità, e 20 per 15 fa 300. Possiamo tirare un sospiro di sollievo. Le vecchiette saranno badate e le saldatrici funzioneranno almeno per un po’. Purtroppo, in assenza di strutture civili adeguate, di adeguati modi di ingresso legale, di diritti sul lavoro per tutti, la indispensabilità non impedisce il razzismo. Ma, salvo catastrofi, cioè salvo crolli nella quantità di lavoratori necessari, per crisi economica, il numero dei migranti crescerà. Se non vogliamo gli stranieri bisognerà dargli in fretta la cittadinanza, come hanno fatto tutti i paesi di immigrazione strutturale, che è quello che siamo diventati. Se non ci piace il loro cattivo italiano - ma spesso è ottimo- bisognerà aprire più scuole e incentivarne la frequenza.
(Francesco Ciafaloni)

15 ottobre 2008. Sogni rimandati
Sue Shellenbarger, giornalista del Wall Street Journal, non si aspettava di trovare nella sua casella postale, ma anche negli interventi sul suo blog “work-life”, storie così. Invece quella che doveva essere una conversazione sulla crisi finaziaria ha fatto emergere tante vicende impreviste che coinvolgono soprattutto donne e parlano spesso di quelli che lei definisce “sogni differiti”.
Ciò che accomuna queste storie è infatti la necessità di rimandare a tempi migliori i progetti di fare una vita più tranquilla, di lavorare meno, di seguire di più i figli, ecc.
La recessione, gli storici lo sanno, significa anche, paradossalmente, meno part-time, meno volontariato, meno periodi sabbatici e più inventiva per escogitare dei sistemi per sopravvivere. Così Jennifer Mathis, di Wilmington, che dopo la nascita del secondo figlio aveva deciso di uscire definitivamente dal mercato del lavoro, di fronte alla crisi del settore del marito, scrive: “Indovina chi è tornata a lavorare?”. Confessa anche di avere una stretta allo stomaco ogni volta che sta lontana dai due figli, di due anni e cinque mesi, ma se questo può sollevare il marito, impegnato nel settore immobiliare, ne vale la pena.
Anche Rachel Boyd, di Defiance, Ohio, sperava di stare a casa almeno fino a che i suoi due gemelli, di sei anni, avessero cominciato la scuola, ma quando il marito ha iniziato a essere licenziato e riassunto ripetutamente…
Marlisa Kopenski, madre di due bambini, sperava invece di rientrare al lavoro con un part-time. Niente da fare, pare che con i tempi che corrono dovrà invece lavorare di più e più duramente. Ma la depressione economica tocca anche il lavoro volontario. Mothers & More, una rete di 6000 volontari ha già perso 200 persone. Qualcuno si è messo a cercare un lavoro “vero”, altri sono passati dal part-time al tempo pieno, altri ancora hanno saturato tutto il loro tempo libero con una seconda occupazione…
(http://online.wsj.com)

17 ottobre 2008. La colpa dei poveri
Ci mancava solo questa. L’attuale crisi, si pensava, avrebbe almeno dovuto far ricredere gli entusiasti della deregulation. Nient’affatto, pare che in alcuni circoli conservatori stia acquistando credito la versione per cui la colpa della crisi sarebbe invece dei poveri e delle organizzazioni che li hanno tutelati.
La teoria è la seguente: i problemi che stiamo fronteggiando non sono stati causati dagli speculatori della finanza o dal governo, ma dai potenti gruppi che lottano contro la povertà e dall’amministrazione Clinton, che con la loro azione di avvocatura attraverso il Community Reinvestment Act hanno costretto Fannie Mae e Freddie Mac a erogare mutui in modo sventato e infine hanno messo Wall Street in ginocchio.
C’è un solo problema con questa storia: che non è vera, spiegano Michael S. Barr e Gene Sperling in un articolo apparso sul New York Times.
Ora è vero che il Community Reinvestment Act in qualche modo costringeva le banche a concedere prestiti a una clientela a rischio, ma è stato emanato più di 30 anni fa, e pensare che possa aver causato la crisi dei mutui subprime è un’ipotesi abbastanza peregrina, tanto più che in un rapporto della Federal Reserve del 2000 risulta che i prestiti erogati in nome di quella legge funzionavano e non erano così pericolosi.
Al contrario, sempre in base ad alcune rilevazioni della Fed, risulta che il 75% dei mutui a rischio erogati durante il boom dei subprime sono stati fatti da istituti privati, non sottoposti a quella legge. Anche l’accusa secondo cui i democratici avrebbero incoraggiato Fannie Mae e Freddie Mac a prestare soldi a chi non poteva restituirli non è fondata. Al contrario l’amministrazione Clinton ha scoraggiato Fannie e Freddie da comportamenti “predatori”, come quelli dei mutui subprime. Di più, Lawrence Summers, Segretario al Tesoro e Gary Gensler, sottosegretario erano stati duramente criticati dal Congresso Repubblicano nel 1999 e 2000 quando avevano messo in guardia Fannie and Freddie dal loro rischio ormai strutturale. Dal 2005 al 2008, Fannie Mae ha acquistato o garantito 270 miliardi di dollari di mutui a individui a rischio -il triplo di quanto prestato in tutti gli anni precedenti. Un errore gravissimo di risk management, che tra l’altro niente aveva a che fare con l’ambizione di soddisfare il desiderio di chi voleva diventare proprietario della propria casa pur non avendo redditi da capogiro.
(www.nytimes.com)

16 ottobre 2008. Studenti indebitati
Gli effetti della depressione economica stanno tristemente coinvolgendo anche i progetti di studio di molti giovani americani. Pare che in sempre più case, il pasto serale sia segnato da penose discussioni in cui gli studenti di college si trovano a scervellarsi assieme ai genitori su come pagare le tasse scolastiche.
Diana e Ronnie Jacobs, di Salem, Indiana, pensavano di aver messo insieme un buon piano finanziario per far studiare i due figli gemelli, una combinazione di risparmi, reddito, borse di studio e un piccolo prestito. Poi Ronnie ha perso il lavoro alla Colgate-Palmolive. Diana Jacobs, che lavora nell’information technology, non sa più cosa fare, vorrebbe dire ai figli “tornate a casa” e al contempo desidera offrire loro un’istruzione adeguata. Fortunatamente la famiglia è riuscita ad aumentare fino al massimo il prestito concesso ai figli e l’economato del college ha fatto il resto, per cui dovrebbero in qualche modo riuscire a concludere il loro percorso scolastico. Il fatto è che con i tassi di disoccupazione in aumento e una recessione che verosimilmente sarà piuttosto lunga, la previsione è di un aumento di richieste per aiuti federali e di prestiti. Gli amministratori dei college sono già parecchio preoccupati, perché questa crisi vuol dire anche che gli introiti legati alle tasse e alle donazioni diminuiranno e, come non bastasse, il governo ha già fatto dei tagli.
Per il momento si limitano a studiare il loro budget per vedere come intervenire nelle situazioni più critiche. E’ ancora presto per predire il tasso di studenti che sarà costretto a lasciare gli studi. Anche perché la crisi del credito ha reso più difficile per gli studenti ottenere un piccolo mutuo, sempre più spesso viene chiesta anche la firma del genitore, oppure devono ricorrere all’aiuto di amici e parenti. Qualcuno teme che, se la depressione economica continua, ci sarà una sorta di ribellione dei genitori per il fatto di dover pagare così tanto per l’istruzione dei loro figli.
La famiglia Jacobs, per dire, ha già dovuto ricorrere a piccoli prestiti per pagare il college ai due figli. Eppure il loro reddito è di 100.000 dollari l’anno. Per il figlio Justin, che studia all’Hanover College, tra tasse e vitto e alloggio spendono 32.000 dollari, altri 29.500 dollari vanno per pagare gli studi di Jacob, che frequenta il Franklin College. Dopo il licenziamento del marito, nonostante l’aiuto finanziario messo a disposizione dai due college, i coniugi Jacobs hanno calcolato che i loro due figli usciranno dal college ciascuno con un debito di 20.000 dollari.
(www.nytimes.com)

19 ottobre 2008.
Perché l’opposizione irrita la gente

Come mai Berlusconi, nonostante le sue molteplici gaffe e i pericoli che il suo modo di governare pone alla democrazia, è sempre più in alto nei sondaggi? I programmi dell’opposizione non sono credibili, dicono in molti. Ma forse c’è qualcosa d’altro e me ne sono reso conto guardando l’intervista di Lilli Gruber a Renato Brunetta, nella rubrica “Otto e mezzo” di giovedì 16 ottobre: c’è uno stile di comunicazione sgradevole e perdente.
La Gruber, ex parlamentare europea diessina, ha esordito cercando di mettere in imbarazzo il ministro con una domanda trabocchetto sulle sue previsioni apparentemente errate in merito alla crisi economica e alle conseguenze sull’Europa della crisi dei mutui subprime. Quando invece Brunetta ha risposto tranquillo e documentato, ha cercato di cambiar subito discorso. Magari il ministro aveva torto marcio e si stava arrampicando sugli specchi, ma la fretta di parlar d’altro dopo aver buttato il sasso ha impedito agli spettatori di capire e ha fatto apparire la Gruber antipatica e scorretta. Questo penoso andazzo è continuato per tutta la trasmissione: domande vagamente accusatorie profferite dalle labbra più vistose del Pd, provocando risposte fulminanti che mettevano in imbarazzo la conduttrice. Insomma, un cappotto che ha fatto apparire Brunetta un gigante della comunicazione.
Non c’è niente di male ad essere dichiaratamente “di parte” quando si conduce una trasmissione televisiva. Giuliano Ferrara lo era sfacciatamente. Ma si dovrebbe avere la capacità di entrare nel merito, di dimostrare dove le ricette dell’attuale governo non sono convincenti, dove l’opposizione sarebbe in grado di fare qualcosa di meglio. Invece si ondeggia dalla puntura di spillo alla denuncia magniloquente, dalla lagna sui soldi che mancano a quella sui posti che si perdono, senza tirar fuori un’idea credibile. Bondi dice che bisogna concentrare i fondi dello Stato sulla Scala e l’orchestra Santa Cecilia di Roma anziché disperderli in 14 enti lirici? Reazioni: “Orrore, cinquemila persone perderebbero il lavoro”. Non si ragiona sulla qualità della musica, tanto per fare un esempio, ma sempre e soltanto sulle garanzie corporative.
Magari i programmi ci sono e alcuni ministri ombra come Bersani e Chiamparino lavorano seriamente. Ma la strategia di comunicazione veltroniana punta sulle apparenze, quando la gente vuole più sostanza. I messaggi che arrivano ai media non sono mai sulla sostanza.
Il governo ombra ha presentato il 16 ottobre 11 proposte contro la crisi: ve ne siete accorti? Sarà anche colpa dei giornali, ma non si può dire che il Partito democratico si sia dato molto da fare per farle conoscere.
Il governo Berlusconi, invece, concilia apparenza e sostanza. Il nostro è uno strano premier, che preferisce esprimersi dal palcoscenico del Bagaglino anziché in parlamento. Così sfoggia al meglio le sue doti istrioniche. Però ha saputo puntare su alcuni ministri esperti e grintosi, che mostrano all’opinione pubblica un’effettiva volontà di cambiare. Questa è la sostanza, o almeno appare come tale. Magari nelle loro ricette “gli è tutto sbagliato”, come diceva il vecchio Bartali. Ma vivaddio, alla gente piace chi finalmente mostra la volontà di scuotere questo Paese. Gelmini compresa, come dimostra l’ottimo articolo di Galli Della Loggia sul Corriere della Sera di qualche giorno fa e la debole difesa del ministro ombra Maria Pia Garavaglia il giorno successivo. Perché ho la sgradevole sensazione che più gli studenti e gli insegnanti si agitano sulla riforma della scuola più sale il gradimento a questo governo?
(www.donatosperoni.it)

22 ottobre 2008. I cinque segni
Sul sito del Wsj, Ruth Mantell indica i “cinque segni” che, se si presentano, dovrebbero mettere in guardia il lavoratore dall’eventualità di essere finito nella lista dei licenziati. Quest’anno negli Stati Uniti sono scomparsi 750.000 posti di lavoro e in previsione ci saranno molti altri licenziamenti. Ruth Mantell però è convinta che vedere qualche “bandierina rossa” che anticipa il licenziamento sia comunque più “sano” e utile (per rimettersi in piedi e ripartire) che pensare che a noi non possa toccare.
Ecco, allora i cinque segnali: primo, se vediamo qualche collega fare le valigie, non pensiamo di essere “immuni”. E poi ricordiamoci che tra le categorie più a rischio ci sono i nuovi assunti e chi non porta a termine i propri compiti. Come dire, uomo avvisato…
Anche l’improvviso calo di nuove assunzioni è un segnale sinistro. Terzo segnale sono i tagli, nelle grandi aziende, dei budget destinati alla formazione, come pure il ridimensionamento dei progetti. Anche il cosiddetto gossip aziendale, per quanto vada sempre preso con le pinze, in questi casi può essere una fonte di informazioni preziosa. Se conoscete qualcuno vicino al boss, cercate di carpirgli cosa pensa. Spesso i lavoratori a lui più vicini sanno per tempo se è il momento di mettersi a cercare qualcos’altro. Infine, per quanto sia improbabile che il management renda noto che le cose vanno male, i dipendenti possono comunque fare una verifica sullo stato di salute dell’impresa guardando il bilancio e il budget.
(http://online.wsj.com)

22 ottobre 2008. Demografia russa
Ricca di spazio, di terre, di minerali, di fonti energetiche, la Russia è povera di risorse umane: di donne e, soprattutto, di uomini, falcidiati da una mortalità che non ha confronti nel nord del mondo. La demografia è ritornata ad essere un problema prioritario del paese. “Una priorità nazionale”, come hanno più volte ripetuto Putin e Medvedev negli ultimi due anni, “una minaccia per lo sviluppo e per la sicurezza del paese”. I pessimisti possono ritrovare, in queste preoccupazioni, echi delle ideologie di potenza che hanno afflitto il mondo nella prima parte del ‘900. Ma a sguardi più attenti e informati balza evidente il fatto che il paese si sta accorgendo, con grande ritardo, di una situazione di crisi che coinvolge la società intera e che è rispecchiata imparzialmente dalla demografia. A partire dal 1993, le morti hanno superato le nascite per valori compresi tra 700.000 e un milione all’anno; solo l’immigrazione -in gran parte composta da russi rientrati dagli stati emersi dal dissolvimento dell’Unione Sovietica- ha permesso di frenare il declino della popolazione, scesa da 148 (1993) a 142 milioni (2007). Se l’immigrazione cessasse (come è possibile), la discesa continuerebbe: 131 milioni nel 2025, 111 nel 2050. La popolazione, che era la metà di quella degli Stati Uniti alla caduta di Gorbaciov, si ridurrebbe ad un quarto di questa alla metà del secolo. Il nucleo profondo della crisi ha due componenti. La prima attiene alla bassa natalità, all’incirca pari a quella italiana, e quindi tra le più basse del continente . L’altra componente della crisi si chiama salute precaria. La Russia è l’unico paese al mondo privo di analfabetismo, con alto livello scientifico ed un’economia oggi in crescita, nel quale la speranza di vita sia regredita durante l’ultimo mezzo secolo. Solo nell’Africa martoriata dall’Aids è avvenuto un simile regresso. Nel 1960 la speranza di vita alla nascita era di 62 anni per gli uomini e 72 per le donne; nel 2005 quella degli uomini è scesa a 59 anni (18 anni meno che in Italia) e quella delle donne è rimasta invariata (12 anni meno). Per gli uomini, si tratta di livelli inferiori a quelli dell’India e del mondo in via di sviluppo. La crisi del sistema di protezione della salute, delineatasi già nell’era di Breznhev, accelera negli anni ’90. Alcolismo, fumo, inquinamento, cattiva alimentazione, fattori di stress legati alla transizione, inefficienza del sistema sanitario si combinano nel determinare un’altissima mortalità per malattie vascolari e cardiocircolatorie, per incidenti stradali e sul lavoro, per suicidi e omicidi. Una catastrofe, sintomo delle debolezze del sistema, che il paese ha cominciato a percepire con grande ritardo.
(Massimo Livi Bacci, www.neodemos.it)

Errata corrige
Cari amici di “Una città”,
occupandomi io da oltre 37 anni della redazione della rivista anarchica “A” conosco le difficoltà del “mestiere” e quindi ho particolarmente apprezzato la trascrizione della lunga (e complessa) chiacchierata che ho fatto con Franco Melandri, pubblicata (“Arrivarono ad Auschwitz a piedi”) sul n. 158. Nel redigere il catenaccio, siete incorsi in un errore, che contrasta con quanto affermato nel testo. Si parla de “La scarsa copertura storiografica dello sterminio nazista, in cui pure ne morirono almeno 20.000”. Circa 20.000 furono in effetti i Rom e i Sinti passati per il camino nel settore zingaro (“Zigeunerlager”) del campo di Auschwitz-Birkenau, tra il febbraio 1943 ed i primi di agosto del 1944. I Rom e i Sinti sterminati dal nazismo furono invece “almeno 500.000, forse un milione” (come è specificato a metà della seconda colonna di pag. 22).
L’impossibilità di determinare il numero (più o meno) esatto delle vittime Rom e Sinte del Porrajmos (com’è chiamata la Shoah in romanesh) costituisce un elemento specifico e caratteristico della situazione sociale di queste popolazioni -ai margini della società.
Dato che nello Zigeunerlager ne furono uccisi solo 20.000, cioè una percentuale oscillante tra il 4% o il 2% del totale degli zingari eliminati dal nazi-fascismo, è doveroso chiedersi come e dove siano stati assassinati gli altri. Altre persone, più competenti in materia, potranno rispondere a questo non piccolo interrogativo.
Certo è che molti morirono nel corso di assalti alle loro abitazioni (case o carri che fossero), incendi dolosi, veri e propri massacri (pogrom) che già avevano avuto luogo in passato ma che allora, grazie alla presenza delle forze armate e di polizia naziste, poterono essere compiuti con la massima facilità. Furono decine, forse centinaia di migliaia, i Rom e Sinti assassinati dalle popolazioni locali, dalla gente -potremmo dire-, come d’altra parte accadde anche agli ebrei, in quelle terre di Polonia, Ucraina, Russia, ecc. Le responsabilità, ancora una volta, non vanno cercate solo nei vertici istituzionali del Reich (da Hitler e Himmler giù giù per li rami della burocrazia nazionalsocialista) -il che renderebbe semplice e limitata la cosa- ma si ritrovano ben distribuite anche a livello popolare. Senza questo consenso, meno passivo di quanto si possa pensare, difficilmente lo sterminio dei Rom e dei Sinti -parimenti a quello degli Ebrei- sarebbe potuto accadere, e in quelle dimensioni. Il che ci porta inevitabilmente a riflettere sull’oggi e sui rischi insiti nell’antiziganismo e nell’antisemitismo, ben più diffusi di quanto la pelle democratica della nostra società lasci intravvedere. Sottotraccia milioni di acari scavano e lasciano le loro feci perché ai diversi possa essere messa la parola fine. Anche allora si cominciò con il censimento, poi con l’allontanamento forzato da Berlino città olimpica, per poi finire come sappiamo. Occhio a Maroni e alla popolarità della sua politica securitaria...
(Paolo Finzi)

Cos’è liberticida?
Noi facciamo i nostri auguri al Manifesto perché viva ancora a lungo. Siamo abbonati affezionati anche perché fa bene avere qualcuno con cui trovarsi spesso in disaccordo.
Quel che però ci lascia un po’ perplessi è la campagna lanciata contro la legge, voluta dal centrodestra, che toglie i contributi alle cooperative editoriali, imputata di essere “liberticida”. Forse saremo un po’ ingenui ma pensavamo che il fondamento della libertà fosse nella capacità di contare sulle proprie forze. Pensavamo che ogni aiuto, non occasionale, ma continuativo e, anzi, decisivo per vivere, fosse lesivo dell’indipendenza, dell’autonomia, e quindi della libertà, di una persona come di un’impresa. Pensavamo anche che il bello di una cooperativa fosse quello di non avere padroni e di dimostrare che si può vivere e lavorare senza, e non già nelle agevolazioni fiscali o in contributi statali speciali…
Viene in mente quando nell’800 tante società di mutuo soccorso dei lavoratori preferirono soccombere alle difficoltà economiche piuttosto che accettare l’aiuto dello Stato.
Ma quella, si sa, era l’infanzia del movimento dei lavoratori. Poi si è diventati adulti scoprendo le virtù salvifiche dello Stato.