2 novembre
Sull’aereo per Tel Aviv vedo inaspettatamente Jeff Halper. Grandi festeggiamenti. All’aeroporto lo va a prendere il figlio, che offre anche a me un passaggio fino a Gerusalemme.
“Lavora nel cinema, con Simone Bitton” spiega Jeff, con un giustificatissimo orgoglio paterno. “Sai, la regista mizrachi, ha fatto Le Mur...”.

3 novembre
Oggi, appuntamento con la Union of Health Work Committees (Uhwc) nella loro sede di al-Bireh, cittadina vicino a Ramallah. A., il direttore, mi spiega che fare: “Prendi il pullman fino a Qalandya. Di lì, sali su un taxi, e telefonami con il cellulare, che spiego al guidatore dove portarti”. Funziona. Così verso i 16.000 euro avuti dalla Regione e i 3.100 ricevuti dalla sezione torinese “Dolores Ibarruri” del PdCI.
Quindi, A. mi consegna a Y.: è lui a portarmi in auto a Marda, per vedere di persona l’ambulatorio. Y. è nipote di un famoso personaggio politico palestinese, e mi spiega di essere un marxista convinto. Sullo specchietto retrovisore dell’auto, un rosario con una croce. “Sono greco-ortodosso”, annuncia.
Per arrivare a Marda, tre posti di blocco. “Posso fotografare i soldati?” chiedo a Y., “No, mi raccomando”, fa lui, preoccupato. “E’ pericoloso”. Marda è interamente circondata da un recinto invalicabile. All’unico ingresso aperto, un cancello, che gli israeliani possono chiudere a piacimento; hanno chiuso l’altra strada con cumuli di pietre. Dall’altra parte della “barriera”, terreno del villaggio, accessibile ora solo ai coloni di Ariel: per gli abitanti di Marda, gli olivi che lì crescono sono ormai irraggiungibili.
All’ingresso nel villaggio, fa gli onori di casa il sindaco. Nell’ambulatorio, il medico e l’infermiera, velata. Il medico è una russa, incinta al nono mese: ha sposato un palestinese. La sala di emergenza ha come unico strumento una bombola da ossigeno: nemmeno l’elettrocardiografo c’è.
Mi mostrano il laboratorio, che consiste in un apparecchio in funzione tre giorni alla settimana, in grado di fornire il risultato dell’emoglobina, dei globuli bianchi, e dell’esame urine. Punto. Non mi fanno vedere la sala raggi: “Non abbiamo ancora un apparecchio funzionante”.
Pazienti in ambulatorio oggi ne sono passati pochi: sono i giorni della raccolta delle olive.

Spiega il medico: “Da qui non si va all’ospedale a Nablus: per i posti di blocco, costa troppo andarvi in taxi”.
Pranzo luculliano a casa del sindaco, felice del progetto di migliorare l’ambulatorio. Il primo cittadino è del Fronte Popolare, ma la moglie, ad ogni buon conto, è velata, e non si presenta agli ospiti: se ne intravede a tratti l’abito dietro la porta della cucina.
Al ritorno, solo due posti di blocco: uno di quelli incontrati al mattino, mi spiega Y., era un flying checkpoint. In cambio, l’attesa è ben più lunga: i militari sono molto più interessati a controllare chi cerca di dirigersi a sud, verso Gerusalemme, che chi va nella direzione opposta.
Y., 33 anni, non ha figli. “Non sono sposato: sono stato in carcere, e fino a poco fa non avevo un lavoro; ora mi occupo delle relazioni esterne per l’Uhwc. Ho preso il master all’università di Bir Zeit, e vorrei proseguire gli studi. Ma gli israeliani mi proibiscono di andare all’estero: sono classificato come un ‘pericolo per la sicurezza’, perché sono stato in prigione”.
Mi mostra le colonie che si vedono dalla strada. Una è costituita da roulottes, visibilmente collegate alla rete elettrica. “E’ ancora provvisoria”, spiega Y., assuefatto allo sviluppo degli insediamenti ebraici: “fra un po’ diventerà definitiva”.
Gli chiedo cosa si aspetta, dal punto di vista politico, per i prossimi 6-12 mesi. Si stringe nelle spalle: “Annapolis è una presa in giro: tutto continuerà come prima. Olmert ha promesso di liberare 300 prigionieri, ma poi ne arresta 35 tutte le notti: quanto ci mette a riequilibrare il conto? It’s the Jews, sono gli ebrei”. Mi mordo le labbra e taccio: ora vorrei solo tornare a Gerusalemme senza incidenti.
A. non mi può riaccompagnare indietro: è impegnato in una riunione. Mi affida a R., un medico dell’Uhwc: sarà lui a riportarmi in albergo. “Non passo per Qalandya”, mi comunica questi. “Altrimenti c’è un’ora e un quarto di coda al checkpoint. Passo per Bir Zeit, ma è una lunga deviazione”.
Anche R., che si è laureato in Medicina nell’ex Unione Sovietica, e che avrebbe voluto diventare un chirurgo, ma che ha dovuto interrompere gli studi per motivi economici, la pensa come ...[continua]

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