In quanto diarista, narratore e osservatore, Saba spesso ritrae e si autoritrae. Uno dei suoi più celebri ritratti è quello molto precoce dedicato a sua moglie. Un ritratto divertito, entusiasta, scandaloso, nel quale la sua Lina viene descritta con sei similitudini ampiamente sviluppate e distribuite in altrettante lunghe strofe irregolari, composte, salvo qualche eccezione, di settenari e di endecasillabi che liberamente e saltuariamente si incontrano in rima. Nella prima strofa il paragone è con "una bianca pollastra”, nella seconda con "una gravida giovenca”, nella terza con "una lunga cagna”, nella quarta con una "pavida coniglia”, nella quinta con "la rondine che torna a primavera”, nell’ultima con "la provvida formica” e con l’ape.
Difficile incontrare nella lirica uno stile più umile e creaturale, tra gioco, scherzo e favola. Solo che poi la clausola improvvisamente solleva il tono a quella particolare specie di sublime familiare, quotidiano, domestico in cui Saba eccelle. Il poeta ritrova, riconosce sua moglie

(…) in tutte
le femmine di tutti
i sereni animali
che avvicinano a Dio;
e in nessun’altra donna
                                            (A mia moglie)

A modo suo, Saba viola le regole del linguaggio lirico trascinandolo, per amore, vicino a terra, rendendolo il più possibile terrestre, fisico, corporeo. L’amorosa lode è sensoriale, se non sensuale, come una prolungata carezza che esplora con intenerita e divertita curiosità le somiglianze carnali della sua amata con una piccola famiglia di non meno amabili animali. Eppure, proprio mentre Saba sembra focalizzare insistentemente la sua attenzione su sua moglie, in realtà se ne distrae. Dilata, estende l’amore per una donna a una serie concomitante e concorrente di animali. Si parla di Lina, tutto è riferito a lei, è lei il filo che tiene unite tutte quelle figure animali: ma in effetti sono queste ultime le presenze reali che occupano l’attenzione di chi scrive. La lode di Lina diventa dal primo all’ultimo verso la lode di qualcos’altro.
È una poesia che appartiene al libro Casa e campagna, che nel Canzoniere è datato 1909-1910: sembra incredibile, l’autore è un giovane tra i ventisei e i ventisette anni, ma nel suo sguardo c’è una sorridente saggezza, un distacco commosso già quasi senile. Il libro immediatamente successivo è uno dei suoi più famosi, Trieste e una donna, 1910-1912. Qui il ritratto è doppio, e ritraendo la sua città Saba ritrae se stesso.
In un ulteriore autoritratto in prosa, che si legge in quella singolare autoapologia o autodifesa interpretativa che è Storia e cronistoria del Canzoniere, composta fra il 1944 e il 1947, Saba scrive: "La situazione di un triestino che scriveva per l’Italia da Trieste (la grande maggioranza delle poesie del Nostro fu composta a Trieste, ‘laggiù’, come dicevano gli italiani) era difficile. Non tanto, nel caso di Saba, per ragioni formali (il suo senso innato della lingua e della forma italiana fu notato dal Borgese e da altri…), quanto perché il cielo che sta sopra la sua poesia, che tutta la compenetra, quel cielo anche, ma non solo, materiale, che alcuni nostri predecessori dissero ‘inconfondibile’, è proprio il cielo di Trieste, quello cioè dell’’altra sponda’. Saba fu insomma, malgrado la sua italianità formale (maggiore in lui che nei suoi contemporanei) e la sua universalità umana, un ‘periferico’. E questo spiega molti equivoci. Le origini triestine di Saba hanno avuto anche, come conseguenza, di farne, almeno agli inizi, un arretrato. (Dal punto di vista della cultura, nascere a Trieste nel 1883 era come nascere altrove nel 1850). Quando il poeta era ancora giovanissimo, e già, in Italia come in tutto il resto del mondo, si preparavano o erano in atto esperienze stilistiche di ogni genere, la città di Saba era ancora, per quel poco che aveva di vita culturale, ai tempi del Risorgimento: una città romantica. Aggiungi, come aggravante, che il poeta (come dice egli stesso nella prefazione al primo Canzoniere: Trieste 1921) ‘viveva in un ambiente dove nessuno aveva parlato a lui di buoni o di cattivi autori’. Ma è stata un’aggravante dalla quale Saba trasse, colla felicità dell’istinto, quella che è stata forse la sua originalità maggiore: essere (come osservarono Solmi e altri) ‘moderno in modo quasi sconcertante’, rimanendo al tempo stesso fedele alla tradizione. La rivolta contro l’endecasillabo classico che, dopo il naufragio del Futurismo (ric ...[continua]

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