Fino a questo momento mi è stato possibile parlare dei poeti nati negli anni ottanta dell’Ottocento, i poeti che rivoluzionano il linguaggio della poesia italiana nel primo ventennio del nuovo secolo, senza dire niente di Umberto Saba. Come è stato possibile? Bisogna dirlo: se si esclude Gozzano, che gli somiglia e non gli somiglia, Saba è il meno innovatore dei nuovi poeti. Non vuole rivoluzionare niente. Preferisce scrivere come un poeta dell’Ottocento, a endecasillabi, settenari, ottonari e strofe rimate. Mentre Ungaretti, più giovane di lui, nasce letterariamente a Parigi, con Apollinaire, vive la guerra, azzera ogni tradizione e ricomincia a sillabare parole singole. Mentre Gozzano muore poco più che trentenne nel 1916, Campana alla stessa età, nel 1918, viene internato in un manicomio, Palazzeschi dopo il 1914 abbandona la poesia per dedicarsi alla prosa, Sbarbaro improvvisamente tace e studia i licheni e Rebora tace per pensare a Dio: risulta invece che Saba, con il 1920, sembra ancora un esordiente.
Poco capito fino a quel momento, nel 1921, a trentotto anni, pubblica la prima edizione del Canzoniere con le poesie scritte nei vent’anni precedenti, ma continua subito dopo a far uscire altri libri: Preludio e canzonette nel 1923, Autobiografia e I prigioni nel 1924, Figure e canti nel 1926. Poeta longevo, in crescita e in continua evoluzione, Saba non inaugura il Novecento, lo percorre e lo occupa per tutta la vita, fino al 1957. È il grande antagonista di Ungaretti, di Montale e dell’ermetismo. È l’alternativa all’oscurità e verticalità lirica degli ultimi epigoni del simbolismo. Invece che partire da Baudelaire, Rimbaud e Mallarmé, impara da un romantico come Heinrich Heine e resta un devoto allievo della tradizione italiana, da Dante e Petrarca a Tasso e Metastasio, riusati secondo estro e necessità. Popolarizza, rende più affabile, più accessibile e più realistica, meno elegante e filtrata la lirica del classicismo italiano.
Nel 1945, quando l’avventura dell’ermetismo si è stilisticamente e moralmente esaurita, quando l’Italia vuole rinascere democratica e comunicare più cordialmente, onestamente con se stessa, Saba pubblica da Einaudi una nuova edizione del Canzoniere e viene finalmente riconosciuto come il più italiano dei nostri poeti. Quando si afferma o si insinua che gli ermetici avevano, modernamente estremizzati, i difetti che Francesco De Sanctis a metà Ottocento trovava in Petrarca, ecco che Saba, nel dispiegamento dei suoi mezzi comunicativi, nella pienezza realistica del suo autobiografismo, fa pensare piuttosto a Dante. Non è un caso se il maggiore, più fedele e autorevole commentatore e analista di Saba è Giacomo Debenedetti, il critico che come bussola per orientarsi nella modernità ha scelto piuttosto il romanzo che la poesia.
Saba è più narrativo che metaforico. Non procede per illuminazioni irrelate e misteriosamente visionarie. Spesso pazientemente descrive, poi commenta e si confessa. La sua poesia nasce ignorando il problema della modernità. Nel suo sistema mentale e formale la "disumanizzazione dell’arte” di cui nel 1925 parlò Ortega y Gasset, è assente. Poeta della vita e del visibile, della quotidianità e dei sentimenti riconoscibili, più che dell’invisibile e degli stati mentali alterati per eccesso o difetto di percezione sensoriali, Saba è il più "antinovecentista” dei nostri poeti del Novecento. Un vero oltranzista nella sua passione di farsi leggere, nella sua vocazione ad allargare e intensificare la comunicazione usando i più tradizionali strumenti poetici. E usandoli anche con una certa naturalezza vagamente trasandata, perché lo "spirito di perfezione” è una tentazione pericolosa per uno scrittore che voglia evitare ogni reticenza. La sua natura e naturalezza è così incoercibile da comparire fin dall’inizio un programma esplicito. In una delle sue prime poesie, "Meditazione”, nella sezione che apre il Canzoniere intitolata "Poesie dell’adolescenza e giovanili”, Saba definisce qualcosa che somiglia a un metodo:

Sfuma il turchino in un azzurro tutto
stelle. Io siedo alla finestra, e guardo.
Guardo e ascolto; però che in questo è tutta
la mia forza: guardare ed ascoltare

La luna non è nata, nascerà
più tardi. Sono aperte oggi le molte
finestre delle grandi case folte
di umile gente. E in me una verità
nasce, dolce a ridirsi, che darà
gioia a chi ascolta, gioia da ogni cosa.
Poco invero tu stimi, uomo, le cose.
Il tuo lume, il tuo letto, la tua casa
sembrano poco a te, sembrano cose
da nulla (...)
Ma che strazio sofferto fu, e per quanto
tempo dagli avi tuoi, prima che una
sorgesse, tra le belve, una capanna;
che il suono divenisse ninna-nanna
per il bimbo, parola pel compagno.
Che millenni di strazi, uomo, per una
delle piccole cose che tu prendi,
usi e non guardi; e il cuore non ti trema,
non ti trema la mano;
ti sembrerebbe vano
ripensare ch’è poco
quanto all’immondezzaio oggi tu scagli;
ma che gemma non c’è che per te valga
quanto valso sarebbe un dì quel poco.
La luna è nata che le stelle in cielo
declinano. Là un giallo
lume si è spento, fumido. Suonò
il tocco. Un gallo
cantò; altri risposero qua e là.

("Meditazione”)

È prosa messa in versi. Poesia che vede cose che solo la prosa sa vedere. Umili endecasillabi quasi casuali, ogni tanto accorciati. Saba non vola alto ma neppure scava, si muove ad altezza uomo e chiama "uomo” il suo lettore. Già a vent’anni ha la sua voce poetica inesorabilmente decisa a non tacere niente che possa sembrare ovvio, a non sorvolare, a non occultare né sublimare o stravolgere. Ci sorprende con l’attenzione paziente che dedica all’ovvietà non vista. Ma c’è in lui anche una pura e semplice passione per l’eterna musica di canzonette gioiosamente semplici:

Ero solo in riva al mare,
all’azzurro mar natio
e pensavo te amor mio,
te lontano a villeggiar.

Era il vespro, era nel mare
presso a scender l’astro d’oro;
d’onda in onda un rivol d’oro
si vedeva folgorar.

Di tra i monti in ciel lo spicchio
della bianca luna nacque;
si vedeva in un sull’acque
il suo argento tremolar.

("Canzonetta”)

Poesia squisita e poesia popolare. Una lunga tradizione canora e un gioco infantile. Comunque, né questa né la precedente sembrano le poesie di un giovane, ma piuttosto di un bambino o di un vecchio. D’ora in poi, con il suo metodo e con le sue inguaribili sofferenze e nevrosi, Saba schiverà l’etica, il tono della virilità adulta come qualcosa di volgare e di ottuso. La realistica socialità della sua poesia guarda la società reale dal punto di vista della solitudine e come se fosse, non potesse che essere materia per una canzone o per una favola: magari una crudele favola psicanalitica, come succederà nelle prose di Scorciatoie.
Vedo che sto parlando (e non me ne sono accorto) di come l’arte usa la realtà e le dà forma. Più che in termini di estetica filosofica, è più interessante non cercare una risposta che valga una volta per tutte e vedere invece come ogni artista si comporta nella costruzione dei suoi prodotti. Quanta musica c’è nelle verità che sono dette, quanta forma c’è nei dati dell’esperienza. In Saba il dosaggio sembra piuttosto equilibrato. Il suo istinto è "mettere in versi la vita” per capirla meglio o per prenderne il meglio, disintossicarla e realizzarla ritrovando la gioia di viverla. Nella sua opera Saba non è solo l’artefice, è anche il personaggio.
Giacomo Debenedetti ha avuto come problema autobiografico di critico la ricerca, l’identificazione del "personaggio-uomo” nel romanzo del Novecento. Anche quando analizzava una poesia ermetica con i suoi enigmi e le sue metafore cifrate, cercava il personaggio nascosto dietro una rete di figure elusive. Il suo primo scritto su Saba, pubblicato nei Saggi critici del 1929, era già uscito in rivista nel 1923, fu quindi scritto subito dopo l’uscita della prima edizione del Canzoniere. A quel punto Saba si era rivelato come un poeta centrale, benché "fuori corrente”, dei primi vent’anni del Novecento. Poeta che contraddiceva le poetiche prevalenti. "Saba, oramai, sta conseguendo la fama vera”, scrive subito Debenedetti. La fama di chi sa conquistare dei lettori e non solo degli squisiti buongustai della letteratura, dei "goditori fini”. È proprio il suo "dono di umanità” ciò che suscita, richiama la risposta "umana” di chi legge.
Come critico Debenedetti dice che trattando con la poesia di Saba si fa a meno di ogni "spirituale galanteria” perché ci si trova impegnati "con un uomo intero”. E la "larghezza della materia su cui Saba lavora” è "tutta intera la sua passione individuale, accettata come cosa di natura”. Siamo fuori della lirica che "esclude la continuità storica, la serie reale delle circostanze costituenti l’umano destino del poeta”. Saba è apertamente autobiografico e non è affetto da un "eroico e disperato tecnicismo”. La sua psicologia non è "straniata da qualunque circostanza empirica e ridotta a tinte d’anima di cui il senso d’insieme è perduto”, è fatta invece di "maturazioni naturali del sentimento”.
Qui sembra che Debenedetti abbia presenti, per contrasto e in opposizione a Saba, non solo precursori dell’ermetismo come Arturo Onofri e Dino Campana, quanto gli Charmes di Paul Valéry, usciti nel 1922, il più perfetto e autorevole prodotto del tardo simbolismo, "poesia pura” in cui l’autore si occulta, sparisce in "miti metafisici e astratti”. Saba ha invece un "piglio confidente, così poco professionale”, una "qualità di aperto candore” nella sua "fedeltà autobiografica”.
Si vede qui Debenedetti (in Italia uno dei maggiori interpeti della modernità) impegnato in una polemica contro il gergalismo della modernità. Per capire Saba si devono evitare gli "ismi”, le correnti, le scuole, i codici speciali e le mode. Il più scandaloso dei sui incipit è quello di una poesia scritta prima del 1910:

Ho parlato a una capra.
Era sola sul prato, era legata.
sazia d’erba, bagnata
dalla pioggia, belava.

Si tratta di una provocazione la cui forza non va sottovalutata. Adoperando con disinvoltura i più ovvi artifici della convenzione poetica, in realtà Saba viola i silenzi e le reticenze del linguaggio poetico facendo irrompere in esso realtà escluse.