Un racconto del lavoro salariato
Guido Baglioni. Mulino, 2014

L’oggetto è il lavoro dipendente, specialmente quello operaio delle fabbriche del Nord. Il periodo, la seconda metà del Novecento e poco oltre. Il tutto visto con l’occhio di chi ha vissuto quel periodo e quei luoghi, ha frequentato quei lavoratori e, da sociologo, ne ha indagate le condizioni con uno sguardo in qualche modo "partecipante”: come lui stesso descrive, "con passione, curiosità, apprensione”. L’ultimo libro di Guido Baglioni, Un racconto del lavoro salariato, segna un cambio di passo con quelli precedenti, intrecciando la grande storia del lavoro novecentesco con le storie degli operai e delle loro famiglie e anche un po’ con la propria biografia personale e familiare: famiglia operaia della Valtrompia, il padre capo-incisore e lui stesso da giovanissimo per un periodo apprendista-operaio alla Pietro Beretta di Gardone e poi costantemente a contatto con le vicende del sindacato e dei suoi militanti in qualità di formatore e di studioso delle relazioni industriali.
La tesi del libro -più che altro la si legge in controluce- è che, dopo aver compiuto un buon cammino e aver fatto molti progressi, il lavoro dipendente ha smesso di essere centrale nella società e di conseguenza si è ridimensionato anche il ruolo di primo piano che il sindacato ha avuto nella seconda metà del secolo scorso (il giudizio sulle prospettive del sindacato, tuttavia, resta parzialmente in sospeso). Per comprendere cosa sia successo e verso che mondo si stia andando, Baglioni ripercorre innanzitutto le ideologie che hanno guidato la "questione sociale del lavoro” nel Novecento (capitoli 1 e 2): dall’ideologia comunista del riscatto della classe operaia e del superamento del capitalismo a quella della Chiesa della Rerum novarum che riconosce l’importanza per i lavoratori di costituirsi in associazioni per migliorare le loro condizioni materiali. Non cela la sua simpatia per il riformismo cattolico, per il pluralismo e per i "miglioramenti graduali”, ma lo fa con rispetto verso le altre idee e, soprattutto, con una costante attenzione alla voce dei lavoratori e alla dignità del loro pensiero. In secondo luogo, interroga le scienze sociali (capitolo 3), in particolare la sociologia del lavoro ma anche l’approccio interdisciplinare di sociologi, giuslavoristi ed economisti al tema del lavoro. A queste scienze riconosce un ruolo di orientamento del movimento dei lavoratori soprattutto nei primi decenni del secondo dopoguerra, con belle citazioni da Touraine, Friedmann e Blauner sul lavoro industriale (pp. 70-72). Ed è come ammettere che, invece, negli anni più recenti la sociologia non è stata in grado di aiutare il movimento dei lavoratori a capire il proprio destino: un giudizio inconsueto, sui cui forse i sociologi e gli altri scienziati del lavoro italiani devono riflettere. Ripercorre anche l’esperienza dei sindacati e del mondo imprenditoriale (capitoli 4 e 5). Del sindacato -soprattutto della Cisl, di cui apprezza il legame che ha saputo trovare tra industrializzazione e azione sindacale e anche la preferenza per la contrattazione rispetto alla regolamentazione legislativa- ha scritto molto in passato. Qui ritroviamo le preoccupazioni già espresse ne L’accerchiamento (2008), quando descriveva un sindacato in ripiegamento ma non necessariamente "al tramonto”: tuttavia, a distanza di qualche anno, dalle pagine del libro emerge uno sguardo sul futuro della rappresentanza innegabilmente più pessimista, come quando definisce il sindacato "una quasi-istituzione” che ha "meno nemici ma anche meno amici di una volta” e che col tempo "si rimpicciolisce ed è meno incisiva” (p. 99).
La parte più interessante del libro è quella che mette a confronto la vita operaia degli anni Cinquanta (il capitolo più bello e più partecipato, a mio parere) con quella degli anni del passaggio del secolo e dell’arrivo della "sorpresa della crisi” (capitoli 6, 7 e 8). Qui il saggio davvero si stempera in un racconto nel quale le prime a essere consultate sono le fonti dei suoi ricordi: la descrizione della quotidianità della vita di fabbrica e di famiglia dei lavoratori di Gardone Valtrompia ci regala delle immagini molto vive, come "la scarsità di colori, dagli abiti alle case” che dominava nel paese, la destrezza e l’abilità degli operai specializzati, la predominanza delle voci maschili e del dialetto, il lavoro vissuto come dovere, le differenze di status tra operai e ...[continua]

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