Paolo Bergamaschi, consigliere per gli affari esteri del parlamento europeo, ha pubblicato Area di Crisi. Guerre e pace ai confini d’Europa, edizioni La Meridiana, 2007.

Maggio 2008
Non c’è traccia di luna nel cielo di Tbilisi, mentre nel cuore della notte l’auto che mi ha appena raccolto in aeroporto mi porta verso l’hotel. Aspetto ancora fiducioso il giorno in cui le compagnie aeree occidentali troveranno orari più umani per i collegamenti con la Georgia. Solo pochi mesi fa, quando capitai l’ultima volta da queste parti, la città era immersa nell’oscurità, sprofondata in un’impenetrabile ed ingannevole quiete. Oggi si presenta ai miei occhi con una veste nuova che la rende incredibilmente bella ed accogliente. La sapiente ed esperta mano di un tecnico francese, con punti luce in corrispondenza degli edifici di maggiore interesse e degli angoli più intriganti, ha dotato la capitale di un nuovo look notturno, uno splendido abito da sera che stupisce per raffinatezza ed eleganza. Ciò che si intravedeva appena o si intuiva per consolidata abitudine cattura l’attenzione con fascino inusitato.
Il riposo non è mai abbastanza nelle notti spezzate. Questa volta, poi, la permanenza in hotel si limita ad un paio di ore di dormiveglia in attesa del ritorno in aeroporto. Non c’è tregua per chi deve viaggiare, ma ce n’è ancora di meno nella meta del mio viaggio. L’Abchazia è raggiungibile solo via terra con un’autorizzazione speciale delle Nazioni Unite. Bisogna, quindi, atterrare a Kutaisi, in quello che resta del vecchio aeroporto, e da lì, in autobus, spostarsi verso il fiume Enguri dove si trova il ponte che funge da accesso alla repubblica auto-dichiaratasi indipendente dalla Georgia agli inizi degli anni Novanta dopo una feroce guerra che fece quasi 8.000 vittime e 240.000 rifugiati. Nessun paese, da allora, ha riconosciuto l’indipendenza di questa provincia, grande quanto l’Umbria, che sopravvive solo grazie agli ingenti aiuti della Russia. Gli abchazi erano solo il 18% della popolazione. Senza le armi ed il supporto logistico di Mosca non sarebbero mai riusciti a sollevarsi mettendo in rotta l’esercito di Tbilisi in uno dei tanti conflitti dimenticati che punteggiano le valli del Caucaso. Della popolazione georgiana non rimase traccia, cacciata o fuggita verso lidi più sicuri nel corso di una di quelle operazioni di pulizia etnica che caratterizzarono indelebilmente la fine del secolo scorso. La comunità abchaza risiedeva prevalentemente nella zona settentrionale, dove si trova la capitale Sukhumi, nota località marina di villeggiatura dell’epoca sovietica. Nella parte meridionale, quella di Gali, vivevano solo georgiani che, scappando, lasciarono il vuoto alle spalle. Negli anni successivi parte di questa popolazione, che si era intanto rifugiata oltre il fiume Enguri, ha cercato saltuariamente di ritornare ai luoghi di origine e, gradualmente, ha ripreso possesso delle antiche proprietà con il permesso delle nuove autorità abchaze. Agli inizi si trattava di semplici sopralluoghi che avevano l’obiettivo di rimettere in funzione le piccole aziende agricole. La presenza di bande di delinquenti che razziavano i vecchi proprietari, però, aveva trasformato, nel frattempo, il distretto di Gali in una terra di nessuno cui si aggiungevano le periodiche violazioni degli accordi di cessate-il-fuoco che irrigidivano le parti provocando la chiusura dei valichi. Una volta stabilizzatasi la situazione, il flusso dei ritorni è ripreso in modo sostenuto. Oggi nella zona di Gali vivono circa 50.000 persone corrispondenti alla metà dei residenti di un tempo. Abitazioni che cadono a pezzi bisognose di urgente manutenzione, strade con vaghe tracce dell’antico manto di asfalto, vacche e maiali di razze sconosciute che vagabondano randagi. Abbandono, desolazione ed opprimente senso di angoscia. La visione non è delle migliori, anche se, in compenso, le coltivazioni di noccioli, che costituiscono l’unica risorsa del luogo, sembrano in ordine.
Nonostante i Balcani si trovino a migliaia di chilometri di distanza dal punto di vista geografico, sono molto vicini al Caucaso da quello geopolitico. Gli ultimi sviluppi in Kosovo che hanno portato alla dichiarazione unilaterale di indipendenza, infatti, stanno avendo pesanti ripercussioni da queste parti e non poteva che essere così. Washington e Bruxelles continuano ossessivamente a ripetere che l’ex provincia serba è un caso “sui generis” che non costituisce un precedente in materia di diritto internazionale. Non così la pensa Mosca che minaccia di applicare lo stesso trattamento a casi analoghi nello spazio post-sovietico. Intanto ha deciso di stabilire relazioni ufficiali con le autorità di Abchazia ed Ossezia del Sud, l’altra provincia secessasi dalla Georgia, scatenando le ire del governo di Tbilisi che considera la mossa come un primo passo verso il riconoscimento o l’annessione strisciante. Va ricordato, inoltre, che ai cittadini di questi due territori Mosca, negli anni precedenti, aveva già concesso il passaporto russo. I soldati dell’ex Armata Rossa costituiscono la stragrande maggioranza del contingente internazionale incaricato del mantenimento della pace in Abchazia dopo gli accordi del 1994 che hanno posto termine alla guerra combattuta in attesa di una soluzione definitiva. Quello che le autorità georgiane non sopportano più è che Mosca da una parte si erge a garante del cessate-il-fuoco e dall’altra entra direttamente in gioco a sostegno di una delle parti in causa. I russi vengono, oramai, considerati, a ragione, come parte del conflitto e non parte della soluzione; “non si possono mettere i lupi a custodire le pecore” osservano stizziti a Tbilisi. Ma il governo georgiano insediatosi dopo la rivoluzione delle Rose del 2003 ha fatto della contrapposizione a Mosca la sua bandiera ed il Cremlino non può tollerare un regime ostile in una delle zone più delicate e nevralgiche dell’ex impero.
In Abchazia è stata dispiegata anche una piccola missione di osservatori disarmati delle Nazioni Unite le cui competenze sono limitate al monitoraggio delle attività del contingente internazionale, alla verifica dell’introduzione di armi, all’investigazione delle eventuali violazioni degli accordi, a garantire il ritorno degli sfollati e a provvedere alla riabilitazione delle strutture. Dal 2003 si sono aggiunti anche una ventina di poliziotti che svolgono attività congiunte con le forze locali di polizia lungo la linea del cessate-il-fuoco. Le organizzazioni per i diritti dell’uomo che da poco hanno aperto un ufficio a Gali confermano, seppure con qualche recente timido miglioramento, la drammaticità della situazione. La tendenza al ritorno si è consolidata ma non appena si riaccende la tensione scatta il panico e la popolazione fugge nei campi profughi oltre il fiume. Agli abchazi è concesso il doppio passaporto, russo e appunto abchazo, non così ai georgiani che per risiedere a Gali devono rinunciare alla cittadinanza del paese d’origine. Da questo punto di vista il paragone con il Kosovo non sta in piedi. A Pristina, infatti, dal 1999 l’amministrazione è interamente nelle mani delle Nazioni Unite, mentre a Sukhumi sono le forze separatiste che detengono tutti i poteri infischiandosene della comunità internazionale con il beneplacito di Mosca. In Kosovo la minoranza serba gode, almeno sulla carta, di ampi diritti ed autonomia politica; in Abchazia, ed in particolare nel distretto di Gali, la comunità georgiana serve solo a riempire un territorio altrimenti spopolato senza alcun diritto che non sia quello di proprietà. E’ su questo terreno che americani ed europei avrebbero dovuto confrontarsi con i russi coinvolgendo Mosca nella definizione di un processo di pace a tappe da applicare a tutti i conflitti congelati ancora presenti in Europa con l’obiettivo di trovare una soluzione definitiva per le aree di crisi. Purtroppo gli Stati Uniti hanno forzato i tempi dell’indipendenza del Kosovo con il silenzio-assenso dell’Unione Europea, che oggi si trova sul banco degli imputati, accusata dal Cremlino di violare il diritto internazionale. Una lunga processione di gente che al tramonto oltrepassa dal lato abchazo la sgangherata dogana per incamminarsi sul ponte che la riporta ad un riparo sicuro per la notte in Georgia testimonia una cruda realtà rimossa in modo troppo disinvolto dalla nostra tranquilla coscienza europea. I tamburi di guerra nel Caucaso non smettono di rullare ma è un lugubre concerto cui nessuno fa più caso.
I contatti tra i rappresentanti abchazi e quelli georgiani si sono interrotti, ormai, da parecchio tempo. Nessuna reazione è arrivata da Sukhumi alle nuove proposte di pace di Tbilisi che prevedono un’ampia autonomia per la provincia con diritto di veto. “Il futuro dell’Abchazia è già stato definito dalla nostra costituzione” sostengono le autorità di Gali durante l’incontro che avviene nell’edificio scalcinato che ospita l’amministrazione locale “nessun compromesso è possibile se non contempla l’indipendenza”. Inevitabile, poi, il ricorso ad una versione edulcorata della storia per dimostrare che la regione di Sukhumi da sempre è stata separata dalla Georgia e che fu Stalin a pianificare l’assimilazione della popolazione abchaza. “Nessuno era disposto ad ascoltarci, solo la Russia l’ha fatto” sottolineano con decisione “noi vogliamo essere liberi di compiere la stessa scelta fatta dai kosovari” incalzano con enfasi. L’auto-determinazione dell’Abchazia, in realtà, è la pedina di una partita molto più complessa che vede americani e russi fronteggiarsi ai lati della scacchiera con gli europei che si affannano a stabilire le regole del gioco. Da tempo fra Washington e Mosca è in corso un braccio di ferro sul progetto di scudo anti-missile, che gli americani vorrebbero piazzare in Polonia e Repubblica Ceca, e sull’eventuale allargamento della Nato a Ucraina e Georgia. I Russi vedono queste mosse come una minaccia alla propria sicurezza e reagiscono, a loro volta, paralizzando le Nazioni Unite sulla questione del Kosovo e rilanciando il separatismo in Abchazia e Ossezia del Sud. Pensare di affrontare i problemi di sicurezza in Europa senza mettersi attorno ad un tavolo con i russi è come decidere di cambiare il tetto di un condominio senza discuterne prima con gli altri condòmini. Ma oltre Atlantico non vogliono sentire ragioni e gli europei, come sempre incerti e divisi, rimangono schiacciati nella morsa.
Le cime innevate del Piccolo e del Grande Caucaso fanno da contorno alla pianura che risale dal Mar Nero verso oriente mentre l’aereo delle Nazioni Unite ci riporta a Tbilisi. Non è stata una semplice escursione. Gali è destinata e rimanere fuori dagli itinerari turistici ancora per parecchio tempo e, comunque, a nessuno verrebbe voglia di visitare un posto simile. Solo chi c’è nato desidera ritornare, ma non a tutti è concessa questa possibilità. Nemmeno il miglior indovino è in grado di sapere, scrutando la sfera di cristallo, quando il vento di pace spazzerà via i venti di guerra. Intanto i profughi aspettano ingrossando le file del popolo senza terra. Ho perso il conto delle volte che sono stato a Tbilisi ma ancora non mi stanco di tornare in questa città. C’è sempre qualcosa da scoprire. L’ultima volta mi ero ripromesso di visitare il museo etnografico che avevo intravisto casualmente, di passaggio, sulle colline alla periferia della capitale. La breve trasferta, durante la pausa pranzo, è premiata dalla originalità e dalla qualità del materiale esposto. Si tratta, infatti, di un museo all’aperto dove hanno trasportato a pezzi e rimontato le abitazioni in legno tipiche delle varie regioni della Georgia. Avevo già visto qualcosa di simile ad Oslo ed a Kiev. In Italia, dove il materiale prevalente di costruzione è il mattone, questo non sarebbe possibile. I nostri musei all’aperto, infatti, sono costituiti dai centri storici. Da questo punto di vista il nostro paese è un unico grande ed incredibile museo sotto al cielo.
Tre droni georgiani, gli aviogetti senza pilota usati per perlustrazione, abbattuti negli ultimi giorni nel cielo di Abchazia. I russi, che dovrebbero comportarsi da pacificatori, rispondono inviando unilateralmente altre truppe nella regione con l’effetto di aumentare ulteriormente la tensione fra le parti. Non è casuale che la Georgia si trovi in prossimità di un importante appuntamento elettorale. Da una parte Mosca vuole lanciare un avvertimento a Tbilisi di non tirare troppo la corda con inutili azioni ostili; dall’altra il presidente georgiano Saakashvili sfrutta ad arte la crisi per richiamare il popolo all’unità nazionale contro la minaccia esterna e mettere a tacere l’opposizione. Sembra tutto dejà vu. Come le interminabili e chiassose cene nei ristoranti della capitale dove il tamadà, il maestro delle cerimonie secondo la tradizione caucasica, ci intrattiene prima di ogni brindisi con elaborate allocuzioni sul senso della vita e gli affari del mondo. Vino e cognac scorrono abbondanti nei calici alzati al futuro della Georgia in Europa. Il mio bicchiere, però, rimane pieno, anche se si tratta solo di una forma di legittima difesa contro gli effetti collaterali dell’alcol georgiano. L’aereo, intanto, aspetta e la sveglia è già regolata per l’imminente ennesima levataccia.

Settembre 2008
Nonostante gli appelli del parlamento europeo per anni la diplomazia europea si è disinteressata della situazione nel Caucaso, come se questa regione non ci riguardasse. Nel Caucaso ci sono tre cosiddetti “frozen conflicts” (conflitti congelati), in particolare due in Georgia (Abchazia e Ossezia Meridionale) e uno in Azerbaigian (Nagorno-Karabakh) con il sostegno militare dell’Armenia. Vi è poi un quarto conflitto congelato nello spazio post-sovietico ed è la Transnistria che vuole separarsi dalla Moldavia. In tutti questi conflitti, scoppiati agli inizi degli anni novanta subito dopo il crollo dell’Unione Sovietica, vi è il coinvolgimento diretto dei Russi che da una parte aizzano le varie comunità etniche e dall’altra parte fanno da paciere, gettano ora benzina, ora acqua sul fuoco, a seconda della convenienza del momento. La loro presenza nella veste di forze di mantenimento della pace in tutti questi conflitti era chiaramente diventata insostenibile.
Detto questo il Presidente Saakashvili con il suo intervento in Ossezia Meridionale del 7 agosto si è tirato la zappa sui piedi. Difficile ipotizzare il ritorno dell’Ossezia meridionale alla Georgia dopo che il presidente della Georgia ha dato ordine di bombardare indiscriminatamente Tskhinvali e dintorni senza distinguere fra obiettivi militari e obiettivi civili. Gli europei avrebbero dovuto condannare l’azione militare di Saakashvili altrimenti si rischia davvero di fare il gioco della Russia che accusa il mondo occidentale di adottare due pesi e due misure. Indipendentemente dagli errori evidenti di Saakashvili va comunque sottolineato che la Georgia è senza ombra di dubbio il paese più democratico della regione. In Georgia c’è piena libertà di espressione al contrario di Russia, Azerbaigian ed Armenia. E l’Europa deve sostenere in tutti i modi la debole democrazia georgiana senza identificarsi con Saakashvili.
I Russi non stanno rispettando gli impegni presi il 12 agosto, quando hanno firmato l’accordo di cessate il fuoco. In particolare non sono rientrati nelle posizioni tenute prima del 7 agosto. Non c’è dubbio che dopo l’invasione di parte della Georgia in contrattacco stanno ora occupando dei punti chiave in luoghi dove non dovrebbero trovarsi. Occorreva da questo punto di vista una risposta chiara, ferma ed univoca da parte dell’Unione Europea che ricordasse a Mosca gli impegni sottoscritti e questa risposta è venuta dalla riunione straordinaria del Consiglio Europeo il primo settembre scorso. Occorre, però, anche ricordare a Mosca che il riconoscimento dell’indipendenza di Abchazia e Ossezia Meridionale significa potenzialmente aprire la strada ad altre rivendicazioni indipendentiste nella regione, in particolare alla Cecenia, purtroppo dimenticata dall’Unione Europea che ha chiuso gli occhi davanti al pugno di ferro di Putin.
Aleggia su tutto la questione del Kosovo ed è paradossale che sia la Russia ad invocare il diritto internazionale. Non c’era alternativa all’indipendenza del Kosovo, ma il momento era sbagliato ed il riconoscimento di Pristina ha incendiato il Caucaso. Bisognava coinvolgere i Russi facendo un unico pacchetto di tutti e cinque i conflitti congelati in Europa definendo assieme una procedura standard per arrivare in tutti i cinque casi alla decisione sullo statuto finale. Occorre applicare requisiti fondamentali come il rispetto dei diritti delle minoranze, il ritorno dei profughi, la restituzione delle proprietà, la protezione del patrimonio culturale e monumentale. Questi requisiti sono soddisfatti in buona parte in Kosovo, non così negli altri quattro casi. Ma bisognava cercare di coinvolgere i Russi. Non si può discutere dei problemi di sicurezza in Europa senza tenere in considerazione le legittime preoccupazioni della Russia. E’ chiaro che lo scudo anti-missile che verrà installato in Polonia e Cechia sta esacerbando le relazioni con Mosca che reagisce inventandosi degli stati cuscinetto come Abchazia ed Ossezia.
E’ importante evitare di ricadere in una nuova guerra fredda. Ci sono ancora margini di manovra anche perché si è creata un’interdipendenza tale fra Unione Europea e Russia che rende impossibile ed improponibile l’interruzione della relazioni. L’Europa, però, deve seriamente porsi il problema di come ridurre la dipendenza energetica da Mosca e può farlo da subito investendo massicciamente su risparmio ed energie alternative. Il nucleare ci rimetterebbe ancora di più nelle mani del Cremlino visto che dovremmo dipendere da Mosca anche per uranio e smaltimento di scorie. Occorre però anche un’Europa dotata finalmente di una politica estera comune più cosciente del proprio ruolo e dei propri mezzi e non un’Europa divisa in grado solo di condannare, ma priva di una visione strategica. La Nato non è la soluzione ai problemi del Caucaso ed in questo senso l’approfondimento dei legami fra Georgia ed Unione Europea può divenire un’alternativa credibile.