24 aprile 2007
“Viaggiando in metro nella linea che dai sobborghi di Washington conduce a Montgomery County, una distanza di 12 miglia, la speranza di vita aumenta di un anno e mezzo per ogni miglio percorso: a un capo del viaggio troviamo neri poveri con una speranza di vita di 57 anni e all’altro capo bianchi ricchi con una speranza di vita di 76,7 anni”.
(Da A caro prezzo. Le disuguaglianze nella salute. Secondo rapporto dell’Osservatorio italiano sulla salute globale. Edizioni Ets, Pisa 2006, p.227).
26 aprile 2007
Il Pd. Ad andar bene sarà il partito dei gazebo, tirati su ogni cinque anni, per chiamare i cittadini a scegliere il leader di un “buon governo”, che penserà di saper bene cosa è bene per il paese. Ad andar male tessere false e quant’altro… Bah.
27 aprile 2007
Alcune modeste proposte.
I deputati e i senatori della sinistra preparino una legge che preveda:
-il dimezzamento del loro numero;
-la riduzione del loro stipendio a 4000 euro;
-l’eliminazione di ogni benefit (treni, aerei e quant’altro; le spese “politiche” spettino al partito, quelle personali e familiari al deputato);
-l’impossibilità di cumulare le pensioni.
-l’abolizione di ogni finanziamento pubblico dei partiti (i partiti vengono finanziati dai cittadini, tutti i finanziamenti da un euro in su devono essere contabilizzati e pubblicati; il non farlo è reato sanzionato molto duramente).
-l’abolizione di ogni finanziamento a organi di stampa di partito.
Siccome questa proposta di legge, prevedibilmente, affronterebbe un iter molto impervio e incerto gli stessi deputati istituiscano da subito due o tre fondazioni (volte a sostenere i cittadini vessati dal pizzo e minacciati; a sostenere le cooperative sociali che gestiscono beni mafiosi sequestrati; a sostenere le famiglie di servitori dello stato caduti sul lavoro o di cittadini caduti per mano terrorista o mafiosa) rette da personalità indipendenti, non impegnate politicamente (possibilmente che abbiano fama di simpatizzare più per la destra che per la sinistra) in cui versare mensilmente l’eccedenza dello stipendio e l’equivalente dei benefit. Naturalmente la lista dei “donatori” sarebbe pubblicata dalle fondazioni con regolarità.
Che ne dite? Non sarebbe un grande messaggio civile e patriottico di rinascita dell’Italia? E a esser meschini, che un po’ non si può non esserlo: ai sottoscrittori non arriverebbe una caterva di voti?
30 aprile 2007
“Se Mohammed Izadein avesse incontrato Elsadiq Elzein Rokero l’anno scorso, avrebbe tentato di ucciderlo. Oggi lo chiama fratello”.
Izadein, arabo, e Rokero, dell’etnia Fur (popolo di contadini neri che abita il massiccio montuoso del djebel Marra, nel centro del paese, da cui il Darfur ha preso il nome) si sono alleati contro il governo sudanese.
Rokero è un generale dell’Esercito di Liberazione del Sudan (Sla). Izadein, un arabo della tribù Talba, situata nel Kass, al sud del Sudan, fino a poco fa attaccava i villaggi dei territori controllati dall’Sla.
Il conflitto in corso in Darfur dura ormai da quattro anni e ha portato alla morte di circa 200.000 persone, con quasi tre milioni di profughi. Iniziato come la ribellione di tre tribù non arabe contro la discriminazione attuata dal governo di Khartum, dominato da arabi, si è trasformato in un conflitto molto complesso e articolato.
L’accordo di pace con l’Sla è stato sottoscritto alla fine dello scorso anno e oggi ben 12 tribù arabe hanno cambiato lato e preso le armi contro il governo che un tempo servivano.
Ci sono così arabi accanto ai ribelli e africani con il governo. Tribù arabe contro altre tribù arabe, con la desertificazione che ha accresciuto le tensioni, dato che tutti combattono per il controllo dell’acqua.
Oggi insomma non si può più parlare di un genocidio dei neri africani da parte dal governo arabo.
Il governo del Sudan sta armando qualsiasi gruppo in grado di combattere contro chiunque stia dalla parte dei ribelli, siano africani o arabi non ha importanza. Si tratta sempre più di lotta per il potere piuttosto che di pulizia etnica. Khartum, secondo alcuni analisti, forse non è nemmeno così interessato a che la guerra finisca.
Le elezioni che si terranno nel 2009 sono cruciali. Il governo auspica quella vittoria che darebbe una patina di legittimità alla dittatura agli occhi della comunità internazionale. Questo oltre tutto permetterebbe all’elite di mantenere il controllo sul petrolio. La politica del divide et impera si è scatenata all’indomani dell’accordo di pace. Le fazioni dell’Sla che non hanno sottoscritto l’accordo sono state premiate con armi e potere.
Sono in molti però ormai a pensare che più che divide et impera, il governo si muova all’insegna dello slogan “dividi e distruggi”, dato che continua ad alimentare il conflitto dando armi e soldi ai diversi gruppi.
Il fatto è che in questo modo diventa sempre più difficile per lo stesso governo mantenere il controllo sulle armi.
Izadein, per illustrare il concetto, tira fuori con soddisfazione i suoi tre lancia granate con propulsione a razzo (RPG), fornitegli da funzionari del governo sudanese. Ora ha tutte le intenzioni di usarle contro le truppe governative.
E’ ormai sempre più diffuso il senso di essere stati ingannati dal governo. Izadein è molto amareggiato: “Quando l’Sla ha attaccato El Fasher nel 2003 (ciò che scatenò l’inizio della ribellione) il governo ci disse che l’Sla aveva noi come obiettivo, per cui dovevamo proteggere noi stessi e i nostri animali”.
Così i leader di otto tribù vennero convocati a Gardud in Jebel Marra e riforniti di tutto punto. La tribù di Izadein ricevette 300 Kalashnikov e l’ordine di attaccare i villaggi occupati dall’Sla.
La strategia era semplice: i janjaweed, i miliziani e il governo lavoravano in stretta collaborazione. Se veniva individuato qualche combattente dell’Sla, arrivava il governo, altrimenti loro potevano predare (o anche bruciare) ciò che volevano.
A un certo punto, gli uomini di Izadein dovevano attaccare il villaggio di Leiba. Dopo due giorni di bombardamenti da parte degli aerei sudanesi, entrarono. Era deserto, per cui diedero fuoco a tutto.
Il punto di svolta è arrivato quando uno dei capi tribù si è recato a Khartum a chiedere una compensazione per i loro morti. Il governo ha rifiutato qualsiasi forma di aiuto. E’ stato allora che l’inganno è diventato chiaro: erano stati usati.
Il racconto di Izadein è tragicamente simile a quello di molti arabi che combatterono contro i ribelli nel Sud del Sudan negli anni ’80 e ’90. Come in Darfur, anche allora il governò armò le milizie arabe per sedare i ribelli. Ma alla fine le milizie si unirono ai ribelli e costrinsero il governo a trovare un accordo di pace.
(www.independent.co.uk)
5 maggio 2007
L’Iraq è in preda a una vera emorragia di medici, proprio mentre la nazione è in balia della violenza. Per bloccare il flusso, il governo ha preso spunto da una prassi adottata da Saddam Hussein: alle scuole di medicina è proibito rilasciare diplomi e “pagelle” ai nuovi laureati. Saddam era riuscito a creare un eccellente sistema medico proprio grazie al fatto che tratteneva i diplomi e i passaporti dei medici iracheni.
E’ ormai diventata battuta comune che in Iraq si stava meglio prima dell’invasione del 2003: l’elettricità era costante, non c’erano le ostilità settarie, il paese era più sicuro (salvo che per le molte vittime del tiranno)…
Quest’ultima decisione però ha avuto un effetto inquietante, soprattutto sugli interessati e soprattutto per ciò che evoca. Akif al-Alousi, leader dell’Associazione nazionale dei medici, quando l’ha casualmente saputo da un reporter, non ci poteva credere. La sua prima reazione è stata di dire che loro avrebbero trasgredito a una tale norma perché viola i diritti fondamentali.
Noor Jassem, 24 anni, al quinto anno, studente al Mustansiriyah Medical College di Baghdad è della stessa idea: “Se il governo non è in grado di proteggere i medici, perché impedire loro di andarsene?”. Intanto sulla legittimità del provvedimento c’è già un rimpallo tra ministeri. Il portavoce governativo Ali al-Dabbagh ha annunciato che non è cambiato niente. Come in passato gli studenti possono avere il loro diploma dopo sei (uno per ogni anno di studio “gratuito” che hanno compiuto) anni di internato. Studenti e professori sostengono invece che all’indomani della caduta di Saddam il rilascio del diploma era automatico e immediato.
Sarà anche contro i diritti fondamentali ma è per il bene e negli interessi della nazione, rispondono dal ministero.
Il sistema medico iracheno, un tempo di altissima qualità, è stato devastato dalla crisi economica degli anni ’90 e da quest’ultima guerra. Negli ospedali mancano ormai anche le cose basilari: garze, antibiotici, addirittura il sangue. Quello che poi c’è è vecchio o rotto. Ma quel che è peggio è appunto che mancano i medici, i quali, al pari degli intellettuali sono diventati obiettivi privilegiati di rapimenti e assassinii.
L’Associazione dei medici (a cui tutti sono obbligati a registrarsi) stima che almeno un terzo dei circa 40.000 medici iracheni siano scappati in Giordania, Siria o altrove. I certificati di “sana e robusta costituzione” (indispensabili ai medici per poter praticare all’estero) vengono rilasciati al ritmo di 30-50 al giorno.
Anche le scuole sono in difficoltà. Alla clinica universitaria di Baghdad metà dei posti sono vacanti. D’altra parte, solo un quarto degli studenti riesce a frequentare regolarmente; gli altri, bloccati da esplosioni, sparatorie e interruzioni stradali si limitano a presentarsi agli esami.
Nonostante tutto il tasso di iscrizione resta alto, il fatto è che i laureati se ne vanno. Prima di quest’ultimo provvedimento secondo il Ministero della Sanità circa il 50% degli studenti lasciava il paese dopo il diploma. I provvedimenti e gli incentivi non hanno sortito gli effetti desiderati: i medici non sono interessati a poter praticare privatamente in ospedale o ad aver affitti bassi per i loro studi; ciò che vogliono è una vita normale.
Nada Fadhil, 23 anni, è rammaricata che l’Iraq stia perdendo i suoi medici, e tuttavia il primo mese di quest’anno lei è rimasta chiusa in casa 10 giorni per paura di uscire.
Qualcuno però parla fuori dal coro anche tra i medici e accusa i giovani di star in qualche modo sfruttando i loro insegnanti per poi andarsene portandosi via quello che è comunque un “tesoro nazionale”.
Da questo punto di vista, i giovani medici hanno il dovere di rimanere nel loro paese. Per ora medici e studenti comunque non hanno in programma proteste pubbliche. Forse il caos, i disordini e la corruzione dilagante almeno permetteranno loro di bypassare il nuovo provvedimento…
(www.washingtonpost.com)
7 maggio 2007
Elezioni francesi. E’ solo un’impressione o si prendono più voti a parlar di doveri che di diritti?
11 maggio 2007
Riportiamo dalla newsletter Ecumenici.
(…) Jon Sobrino vive in Salvador, il cui arcivescovo, Oscar A. Romero, è stato assassinato dalle forze della destra mentre diceva messa nella cappella di un ospedale nel 1980. Il prossimo 24 marzo si commemorano i 27 anni del suo martirio.
Sobrino vive a San Salvador, nella stessa casa in cui, nel 1989, quattro sacerdoti gesuiti, oltre alla cuoca e a sua figlia di 15 anni, sono stati assassinati da uno squadrone della morte. Come si può rinnovare la Chiesa se le sue teste migliori stanno sotto la ghigliottina di chi vede eresia dove c’è fedeltà allo Spirito Santo? Quel che c’è dietro la censura a Jon Sobrino è la visione latinoamericana di un Gesù che non è bianco e non ha gli occhi azzurri. Un Gesù indigeno, negro, scuro, emigrante; Gesù donna, emarginato, escluso. Il Gesù descritto nel capitolo XXV di Matteo: affamato, assetato, stracciato, malato, pellegrino. Gesù che si identifica con i dannati della terra e che dirà a tutti che di fronte a tanta miseria devono comportarsi come il buon samaritano : “Ciò che farete a uno dei miei piccoli fratelli, lo farete a me” (Matteo 25,40).
(Frei Betto su http://www.peacereporter.net)
11 maggio 2007
“Come questa commissione ben sa, ci troviamo di fronte alla guerra più privatizzata della storia del nostro Paese. Non è certo nuovo, ma è un fenomeno che è andato via via accelerando sin dall’inizio della “Guerra Globale al Terrore” e dall’invasione ed occupazione dell’Iraq. Molti americani sanno che gli Stati Uniti stanno impiegando circa 145.000 soldati in Iraq: ciò che non viene mai ricordato è che il personale delle ditte appaltatrici, schierato al fianco delle forze dell’esercito regolare, consiste di circa 126.000 dipendenti, detti contractors. Queste forze private, di fatto, raddoppiano la consistenza della forza di occupazione, senza che la maggior parte dei contribuenti, che finanziano la guerra, ne sappia niente. Nonostante le somiglianze tra questi due eserciti schierati in Iraq, ci sono differenze chiave nel modo in cui il nostro Governo si comporta con l’esercito regolare e con gli appaltatori militari. Per esempio, sappiamo bene che circa 3.400 soldati americani sono caduti, e che ci sono stati più di 25.000 feriti. Non conosciamo però con esattezza il numero dei lavoratori a contratto caduti, o feriti. Attraverso i dati del Dipartimento del Lavoro, siamo riusciti a stabilire che almeno 770 dei dipendenti delle imprese sono deceduti in Iraq al dicembre 2006, con circa 7700 feriti. Queste vittime non sono state incluse nel conteggio ufficiale dei caduti, in modo da mascherare il vero costo umano di questa guerra. La cosa più inquietante, è ciò che questo significa per la nostra democrazia: in un momento in cui l’attuale amministrazione non sembra disposta a sottoporre la sua strategia alla supervisione del Congresso, assistiamo ad un diffuso uso di forze private, apparentemente intangibili a qualsivoglia strumento di supervisione, o legge. … Queste forze lavorano per compagnie americane come Blackwater, Triple Canopy e DynCorp, e per altre provenienti da tutto il mondo. Alcuni dipendenti privati percepiscono in un mese quello che i soldati dell’Esercito Americano ricevono in un anno. … I nostri soldati, a molti dei quali manca l’equipaggiamento difensivo di base -un fatto ben noto a questa Commissione-, si trovano ad avere a che fare, in zona di guerra, con le forze private degli appaltatori che sfrecciano su veicoli migliori, con armature ed armi migliori, con il logo dell’azienda al posto della bandiera americana”.
Jeremy Scahill, autore di bestseller e reporter per la rivista “The Nation”, ha recentemente testimoniato davanti alla House Appropriations Subcommittee on Defense (l’agenzia della commissione parlamentare per il controllo degli stanziamenti che si occupa delle spese militari) riguardo l’impatto dei contractors sulla conduzione della guerra in Iraq.
Molti soldati, invidiando la condizione da “rock star” dei contractors, cominciano a pensare a passare al servizio privato. In Iraq c’è ormai un modo di dire per indicare questo comportamento: “Going Blackwater” (darsi alla Blackwater). Si è creata una situazione in cui il patriottismo non riesce più a competere con il profitto.
A gennaio, il Generale David Petraeus, nel suo più recente sopralluogo in Iraq, è stato accompagnato da agenti di “sicurezza privata”.
C’è un’altra discriminante tra i due “corpi”: i soldati che commettono reati, o abusi, vengono perseguiti secondo il Codice Militare (ad oggi ci sono stati 64 processi alla Corte Marziale, per casi d’omicidio). Tra i contractors, solo due dal 2003 hanno affrontato un processo. Uno era un dipendente della Kbr, accusato di aver pugnalato un suo collega, mentre l’altro si era dichiarato colpevole di aver scaricato materiale pedopornografico sul suo computer, presso il carcere di Abu Ghraib.
“I casi sono due: o le ditte assumono solo boy scout come personale di sicurezza, oppure c’è qualcosa di profondamente sbagliato nel sistema. Il Generale di Brigata Karl Horst, della Terza Divisione di Fanteria, si era talmente infuriato nell’assistere all’inaffidabilità dei soldati a contratto, che aveva iniziato a registrarne le violenze a Baghdad. In soli due mesi, aveva già documentato dodici casi di contractors che avevano fatto fuoco sui civili, causando sei morti e tre ferimenti. I soldati delle ditte appaltatrici in Iraq hanno il loro motto: ciò che oggi succede qui, resta qui”. Questo dovrebbe preoccupare parecchio chiunque sostenga che di tutte le funzioni del governo, quella militare sopra tutte dovrebbe rispondere a criteri di trasparenza, responsabilità e rispetto delle regole.
Queste forze agiscono in nome degli Stati Uniti d’America: gli iracheni non distinguono tra contractors e soldati americani, ma li vedono tutti come “occupanti”. Dunque, gli abusi compiuti dai primi sono anche dei secondi.
“C’è una questione più profonda che viene spesso ignorata. Il sistema d’appalto di questa guerra ha messo in relazione i profitti privati alla recrudescenza della guerra stessa. Queste imprese non hanno alcun incentivo a ridurre la loro presenza sul territorio, semmai ad incrementarla”.
(www.thenation.com)
18 maggio 2007
Il primo atto da presidente di Sarkozy, il giorno stesso del suo insediamento, è stato quello di andare presso l’albero del Bois de Boulogne dove furono fucilati dai tedeschi trentacinque giovani francesi. Lì è stata letta da un giovane studente la lettera che un ragazzo di 17 anni, figlio di un militante comunista, aveva scritto ai genitori la sera prima della fucilazione. E Sarkozy ha annunciato di aver dato disposizione che all’inizio dell’anno scolastico, in ogni classe di Francia, venga letta quella lettera. Al pomeriggio è volato dalla tedesca Merkel a parlar d’Europa.
Che dire? Dispiace, ma entusiasmante.
Riportiamo la lettera del giovane Guy Moquet, fucilato il 22 ottobre 1941 vicino a Chateaubriand.
Mia adorata mamma, mio caro fratellino,
mio amato papà, sto per morire. Quello che vi chiedo, a te in particolare mia adorata mamma, è di essere coraggiosi. Io lo sono e voglio esserlo quanto lo sono stati coloro che sono venuti prima di me. Certo, avrei voluto vivere. Ma spero con tutto il mio cuore che la mia morte serva a qualcosa. Non ho avuto il tempo di abbracciare Jean. Ho abbracciato i miei due fratelli Roger e Rino. Purtroppo mi sarà impossibile salutare quello vero.
Spero che ti vengano inviate tutte le mie cose, potranno servire a Serge, che sono sicuro sarà fiero di averle ricevute un giorno. A te, caro papà, perdonami se ti ho dato delle pene, come le ho date alla mamma; ora ti saluto per l’ultima volta. Sappi che ho fatto del mio meglio per seguire la strada che tu mi hai indicato. Un ultimo saluto a tutti i miei amici e a mio fratello che amo tanto. Che possa studiare bene per divenire un giorno un uomo.
17 anni e mezzo! La mia vita è stata corta, ma non ho alcun rimpianto se non quello di lasciarvi…
Morirò con Tintin, Michels. Mamma, quello che ti chiedo, quello che voglio che tu mi prometta, è di
essere coraggiosa e di superare il tuo dolore.
Non posso più parlare. Vi lascio tutti, tutte, a te mamma, Serge, papà, vi abbraccio con tutto il mio piccolo cuore di bambino.
Coraggio! Il vostro Guy, che vi vuole bene.
Ultimi pensieri: Voi che restate, siate degni di noi,
i 27 che stanno per morire.
Roger e Rino erano dei compagni di Guy. Tintin sta per Jean Pierre Timbaud, Michels è Charles Michels, entrambi verranno uccisi con Guy
Numeri
L’età più elevata mai raggiunta da un Homo Sapiens, dimostrabile attraverso documenti, è di 122 anni, anche se una pietra tombale in Westminster Abbey attribuisce 152 anni all’inglese Thomas Parr, vissuto fra il 1483 e il 1635. Un essere umano del terzo millennio vive in media poco meno di 64 anni (62,7 gli uomini, 66 le donne), tuttavia può ragionevolmente aspirare a superare gli 80 anni se nasce ad Andorra (83,5) o San Marino (83,1); deve invece realizzare i suoi obiettivi in poco oltre 30 anni se nasce in Swaziland (33,2) o Botswana (33,9). Il Giappone detiene il record di longevità femminile (85,3 anni), l’Africa il record negativo fra i continenti (45,8 anni). Solo nel mondo occidentale si vive mediamente oltre i 70 anni. Fra i paesi europei, Svezia (80,5) e Svizzera (80,5) guidano la classifica, seguiti da Islanda (80,3), Italia (79,8) e Francia (79,7); i paesi dell’ex Urss chiudono le fila con 65,8 anni in media (59 gli uomini). Colpa del fumo, dell’alcool e delle droghe. Ma il peggio su questo fronte accade a Dalton, in Scozia, un sobborgo di Glasgow dove gli uomini vivono in media 53,9 anni (74,8 le donne). I paesi con il più elevato tasso di longevità, oltre Andorra e San Marino, sono Macao (82,2), Singapore (81,7) e Hong Kong (81,6). Negli Stati Uniti, tra il 1900 e il 2000 si è osservato un incremento nell’attesa di vita del 60%: nel 1900 un bianco Usa aveva speranza di raggiungere i 47 anni (49 le donne), un nero 33 anni (34 le donne). Nel 2000 si è raggiunta una speranza di vita di 75 anni per i bianchi (80 le donne) e di 68 per i neri (75 le donne).
La speranza di vita alla nascita in Iraq è di 68,7 anni, in crescita rispetto al 2000 quando era sprofondata a 58,7 anni dopo 10 anni di embargo (65 anni nel 1990), 42,9 anni in Afghanistan, 70 in Iran, 71,4 in Corea del Nord, 73 nei Territori Occupati, 79,4 anni in Israele. Fra i paesi con la minore attesa di vita, oltre a Swaziland e Botswana, Lesotho (34,5), Zimbabwe (37,8), Zambia (39,7), Mozambico (40,3), Malawi (41,4), Sud Africa (43,3), Repubblica Centro-Africana (43,4), Namibia (44) e Guinea-Bissau (46,6) soffrono alti tassi di infezione da Hiv/Aids, con prevalenza compresa fra il 10% e il 38% della popolazione adulta. Nel mondo ricco i principali killer dell’Homo Sapiens sono le malattie cardiovascolari e tumorali, quasi sconosciute cento anni fa quando costituivano, rispettivamente, il 6,2% e il 3,7% del totale delle cause di morte; prevalevano allora polmonite (11,8%) e tubercolosi (11,3%). La crescente prevalenza delle patologie tumorali e cardiache ha accompagnato gli sviluppi del XX secolo; a fine Novecento le morti per problemi cardiovascolari sono cresciute fin oltre il 30% del totale (incremento del 500%), quelle per tumori fino al 23,3% (600% di incremento). Se però si considerano le età comprese fra 15 e 19 anni, la causa più probabile di morte sono gli incidenti automobilistici che ogni anno causano nel mondo circa 1,2 milioni di decessi; i feriti si contano in decine di milioni. Fino a 25 anni un giovane uomo ha tre volte più probabilità di rimanere vittima di un incidente d’auto rispetto a un individuo donna della stessa età.
(Wikipedia; Index Mundi; The Lancet, 21 aprile 2007; The Guardian, 21 gennaio 2006).
17 maggio 2007
Le minoranze negli Stati uniti hanno raggiunto quota 100,7 milioni. Un residente su tre appartiene a una minoranza, ha rivelato oggi l’ufficio del censo. Gli ispanici rimangono la minoranza più numerosa con più di 44 milioni di persone, seguiti dagli asiatici, circa 15 milioni. Quattro Stati, oltre al Discrict of Columbia hanno una maggioranza di minoranze. Le Hawaii guidano la nazione con il 75% di minoranze, seguite dal Discrict of Columbia (68%), New Mexico e California (57%) e infine il Texas (52%). In tutti gli altri stati le minoranze non superano il 42% della popolazione complessiva.
I bianchi non ispanici, che rappresentano il 66% della popolazione, sono statisticamente più vecchi degli altri gruppi.
(www.census.gov)
20 maggio 2007
Il 17 maggio su Second Life si è scatenata una vera guerriglia di fronte alla sede del Psoe di Oviedo. I dimostranti anti-Eta, convocatisi per una manifestazione, si sono ritrovati improvvisamente di fronte a una truppa organizzata che ha attaccato la sede del Psoe. I guerriglieri hanno lanciato bombe, fatto fuoco con mitragliatori e sono penetrati nella sede con un tank. Già la settimana scorsa un altro gruppo di interventisti aveva cercato di dar fuoco a una sede virtuale del Partito Popular di Gijón.
(www.apogeonline.com)
24 maggio 2007
“E’ giusto che uno studente indiano quindicenne possa vedere l’immagine, il disegno di come il corpo di un adolescente si trasforma in quello di un adulto?”. Questa semplice domanda sta scatenando un serrato dibattito che concerne i valori, la morale, ma anche l’educazione degli adolescenti indiani. Gli straordinari cambiamenti sociali che stanno investendo l’India hanno aperto vari interrogativi sui testi scolastici in merito all’educazione sessuale rimettendo in discussione i labili confini tra accettabilità culturale e tabù sessuali.
Recentemente in sei dei 28 stati è stato sospeso un programma educativo rivolto agli adolescenti tra i 15 e i 17 anni. All’origine dell’iniziativa le illustrazioni che mostrano il passaggio alla pubertà -attraverso i cambiamenti del corpo.
Anche le informazioni riguardo malattie a trasmissione sessuale e sulla contraccezione hanno creato problemi.
Uno dopo l’altro, Gujarat, Madhya Pradesh, Maharashtra, Karnataka, Rajasthan -i maggiori stati dell’India- hanno dichiarato tale contenuto inaccettabile per i ragazzini indiani e sospeso il programma.
I giovani dovrebbero piuttosto concentrarsi sullo yoga e la cultura indiana. Questi materiali non solo disprezzano i valori indiani ma corrompono la mente dei giovani. Così alcuni ministri locali hanno giustificato la propria decisione al governo centrale. Aggiungendo che “l’educazione sessuale forse è necessaria nei paesi occidentali, ma non certo in India, che vanta una ricca cultura e dove potrebbe avere effetti nocivi sulle giovani menti se implementata”.
Queste reazioni hanno ulteriormente frustrato l’organizzazione nazionale per il controllo dell’Aids. L’anno scorso l’India è diventata il paese con il maggior numero di persone Hiv-positive, si parla di 5,7 milioni di casi.
Sujatha Rao, la direttrice dell’organizzazione è stata molto dura: “Qui non c’è spazio per una discussione sulle sensibilità culturali. La questione è quella di salvare delle vite”.
Ha accusato inoltre gli esponenti religiosi e politici più reazionari di non saper affrontare una generazione che guarda la tv, il cinema, usa internet, e di essere solo preoccupati che l’area della sessualità e riproduzione stia uscendo dal loro controllo.
L’India ha incluso l’educazione sessuale nei propri curriculum alla fine degli anni ’80, fornendo però materiale poco dettagliato rispetto alla trasmissione delle malattie e alla contraccezione. E’ stata la diffusione dell’Aids a far pensare a un intervento più puntuale rispetto a queste tematiche.
In base alle ultime ricerche un terzo delle infezioni riguardano i giovani tra i 15 e i 29 anni. In un rapporto uscito nel 2006 risultava che l’8% dei teenager indiani ha avuto rapporti occasionali. Il settimanale India Today a sua volta ha pubblicato una ricerca secondo cui il 25% delle donne tra i 18 e i 30 anni ha avuto rapporti sessuali prima del matrimonio.
Ma gli autoproclamati difensori della moralità indiana non si fermano qui. Nonostante un’atmosfera progressivamente più permissiva, può bastare un bacio o un abbigliamento a scatenare una tempesta alimentata dai media.
E tuttavia Vandana Sharma, direttrice del Nari Raksha Samiti, un centro per la tutela delle donne non ha dubbi: “Questo tipo di insegnamento non era necessario 10 anni fa, ma oggi l’India si sta mescolando sempre più con le culture occidentali, soprattutto grazie alla tv via cavo… gli adolescenti vedono questi personaggi avere relazioni extraconiugali e donne in ruoli seduttivi, e vogliono sperimentare anche loro”. Il problema insomma è casomai questo, non l’educazione sessuale “che rappresenta invece la soluzione”.
(www.nytimes.com)
25 maggio 2007
Il mese scorso, Fred Wilson, “venture capitalist”, ha annunciato sul suo blog che avrebbe rinunciato a rispondere alle email accumulatesi nella sua casella. “Sono ormai così indietro che dichiaro bancarotta”, ha scritto, “Se mi avete mandato un messaggio (e non siete mia moglie, partner o collega), dovreste rimandarmelo. Riparto da zero”. Molti professori di college hanno fatto la stessa cosa e perfino un dirigente della Silicon Valley il giorno successivo ha seguito l’esempio di Wilson. A settembre 2006 anche Moby aveva mandato un messaggio a tutti i suoi contatti dicendo che si sarebbe preso una pausa fino a fine anno. La comodità dei messaggi di posta elettronica sta diventando qualcosa di ingestibile per molta gente. Inondati da messaggi (il cui traffico è raddoppiato in soli due anni) e tormentati dallo spam molti utenti stanno iniziando a dire: “Basta!”.
Chi dichiara bancarotta si libera dell’email o più facilmente svuota la casella e ricomincia.
Il sovraccarico di email fa sì che molti lavoratori abbiano l’impressione che il loro lavoro rimanga costantemente non compiuto.
“Da oggi torno alla comunicazione vocale quale mezzo privilegiato per la comunicazione con la gente”, ha scritto Jeff Nolan, a capo della software company Teqlo, nel blog in cui annunciava il suo boicottaggio dell’email.
Sherry Turkle, del Mit ha condotto una ricerca sul rapporto tra le persone e la tecnologia rilevando appunto la gravità del peso che molte persone sentono rispetto alla posta elettronica. Lei stessa, con i suoi 2500 email ancora da leggere è tra i soggetti interessati. Ora sta per uscire un libro su cui lavora da dieci anni. Ebbene, avrebbe impiegato la metà del tempo senza l’email, ha dichiarato. Non tutti gli stressati da posta elettronica optano per una totale bancarotta; alcuni si limitano a scoraggiare l’uso di questo mezzo a favore di sms e telefonate. Tra questi Sean Bonner, a capo di un network di news blog, che ha attivato un avviso sulla sua casella privata e di lavoro che avverte che non controlla più la posta come faceva un tempo. Resta il dilemma, che attanaglia anche chi si è limitato a un ritiro parziale, se rispondere o meno ai messaggi.
Lawrence Lessig, della Stanford University, ha dichiarato una “email bancarotta” già qualche anno fa. Costretto a scegliere se lavorare o rispondere ai messaggi, ha scritto a tutti i suoi contatti: “Cara persona che mi ha scritto un email a cui non ha avuto risposta, le chiedo perdono, ma dichiaro email bankruptcy” aggiungendo un’ulteriore richiesta di scuse per la mancanza di “cyber decency.”
Dopo aver eliminato il 90% del traffico, non se l’è tuttavia sentita di chiudere definitivamente, proprio per una resistenza psicologica.
Anche i critici dell’email hanno evidentemente i loro critici, che denunciano come chiamarsi fuori sia un modo reazionario e isolazionista di approcciare la comunicazione moderna.
(www.washingtonpost.com)
29 maggio 2007
“Niente, non ricordo niente -insiste la signora di mezza età davanti alla corte- ero malata durante il genocidio”.
Davanti a lei: un pluriassassino, un pubblico di vicini di casa e una fila di giudici della corte gacaca, una delle 9000 sessioni locali istituite dal governo del Rwanda nel 2001 per giudicare decine di migliaia di accusati di aver partecipato al genocidio. Il giudice è ormai abituato a sentire testimoni raccontare le cose più bizzarre e fantasiose. Ricorda quindi alla donna che la ritenzione di informazioni utili viene punito con un anno di detenzione, ma già sa che tali minacce hanno poco effetto quando una comunità erige un muro di oblio. La testimone successiva dice di esser stata impegnata a guardare le sue mucche dalla finestra mentre quelle due ragazzine venivano uccise davanti a casa sua…
Dimenticare è la questione oggi in Rwanda, dentro e fuori i gacaca. Il mantra “never forget” allevia il senso di colpa della comunità internazionale, ma tale slogan appare sempre più estraneo a una società impegnata nella propria ricostruzione dopo un genocidio. Il bisogno di ricordare, la pressione a dimenticare: i ruandesi devono riuscire a tenere insieme tutto questo nella costruzione di una rappresentazione plausibile del passato e di basi accettabili per il presente e il futuro.
I sopravvissuti non possono che ricordare; gli assassini e i complici invece sono inclini a dimenticare. I primi poi sono assai meno numerosi dei secondi. Negli annali del genocidio, da questo punto di vista, il Rwanda è un caso unico, perché i sopravvissuti non sono andati via, continuano a vivere accanto alla maggioranza etnica coinvolta nel genocidio.
L’incredibile massacro compiuto (800 mila persone sterminate in 100 giorni) è stato possibile solo grazie a una grande mobilitazione. La maggioranza della popolazione nel 1994 -gli Hutu costituivano il 90%- è rimasta a guardare o ha partecipato allo sterminio della minoranza Tutsi -morirono anche molti Hutu. Ora, a partire da questa maggioranza, con circa 150.000 Tutsi sopravvissuti (più quelli che stanno rientrando dai luoghi in cui si erano rifugiati prima del genocidio), dovrebbe nascere un nuovo paese.
Jean Hatzfeld ha scritto due importanti libri, basati sulla raccolta della storia orale (uno sulle vittime, l’altro sui carnefici). Ciò che l’ha colpito sono state le infinite litanie di autoassoluzione e discolpa da parte dei colpevoli. Lui azzarda l’ipotesi che sia la natura stessa del genocidio a condurre a un processo di memoria selettiva, o amnesia progressiva, che rende i carnefici innocenti ai loro stessi occhi. Come se ci fosse qualcosa di troppo, di inaccettabile, di inconcepibile in ciò che è accaduto.
La formula della giustizia gacaca è nata da un problema concreto: non c’erano abbastanza avvocati né tribunali per processare tutti i colpevoli -Amnesty International ne ha stimato 112.000 nel 2002.
Il sistema gacaca era una tradizionale forma di giustizia locale utilizzata per la mediazione in conflitti perlopiù legati alla proprietà. Nel tentativo di ripristinare il modello, le comunità sono state così invitate a eleggere dei giudici, incaricati di raccogliere i fatti e redigere dei dossier sui vari casi. I crimini vengono poi classificati secondo tre categorie. La prima include gli imputati accusati di aver pianificato o orchestrato il genocidio o di aver commesso stupri o torture; la seconda chi ha ucciso o ferito; la terza gli accusati di rapina e saccheggio.
La prima categoria viene automaticamente trasferita al Tribunale internazionale di Arusha e sottoposta a regolare processo.
Vale la pena ricordare che ci sono differenze rilevanti tra il caso Rwanda e quello della Commissione per la Verità e la Riconciliazione sudafricana. Intanto nel primo si parla di genocidio, mentre nel secondo di crimini contro l’umanità. Inoltre la Commissione non è propriamente un corpo giuridico, non emette verdetti -per alcuni, questo è uno dei (gravi) limiti all’esperimento. Infine la Commissione si è occupata anche dei crimini commessi dall’African National Congress (Anc), non solo delle violazioni del governo.
Il nuovo governo del Rwanda, guidato da Paul Kagame, ex comandante del Fronte Patriottico Ruandese (Rpf), ha invece fatto resistenza a che venissero trattati anche i crimini di guerra commessi dal Rpf.
A differenza dei Tribunali internazionali, i gacaca, comunque, fanno ormai parte della vita quotidiana in Rwanda. Per le strade i cartelloni invitano alla partecipazione; la foto classica ritrae una folla con la mano alzata per fornire informazioni ai giudici. Se mai è stato vero, oggi il quadro è molto diverso. E tuttavia l’esperimento va avanti. Del resto, se questa settimana l’imputato è chi ha ucciso tuo figlio o tuo marito, l’esito sarà decisivo.
Le critiche più radicali denunciano come questi processi non servano a nessuno. I superstiti rimangono spesso delusi se la mancanza di prove assolve noti assassini. D’altra parte gli Hutu sono sottoposti a gravi pressioni e minacce lungo tutto il procedimento. C’è poi il problema di un iter apparentemente senza fine che potrebbe avere esiti catastrofici.
Lars Waldorf, già incaricato nell’amministrazione Clinton e direttore dell’ufficio di Human Rights Watch di Kigali dal 2002 al 2004 sta seguendo meticolosamente l’andamento dei gacaca. Ciò che più lo sconcerta è il numero di errori gratuiti che vengono commessi (di uno è stato testimone anche lui -peraltro l’unico ad essersene accorto). Tuttavia, nonostante le aspre critiche, Waldorf resta un sostenitore dell’esperienza.
Uno dei nodi critici è che il sistema gacaca, massimizzando la colpevolezza, tende a far sparire quell’area grigia in cui la gente è stata presa da panico e terrore, ma non necessariamente ha commesso atti criminosi -magari ha rubato, ma non ucciso per farlo; magari ha rifiutato di aiutare i Tutsi, ma non li ha uccisi, ecc. C’è insomma un ampio dibattito anche sui livelli di “partecipazione” della popolazione al genocidio e su come giudicarli, non solo giuridicamente.
Resta il fatto che un genocidio comporta e ha come condizione una partecipazione massiccia. “Ci vuole la complicità di un villaggio per poter uccidere i vicini”.
Per quanto ogni genocidio faccia caso a sé, ci sarebbero insomma degli elementi strutturali comuni. Da questo punto di vista, è più probabile che una corte gacaca lasci libero un innocente piuttosto che punisca un colpevole.
Altro tema, estremamente delicato e non ancora indagato, è quello del rapporto tra giustizia e vendetta, come pure quello di chi cerca di trarre profitto da questi procedimenti. Recentemente l’assassinio di un sopravvissuto, tra l’altro giudice gacaca e leader di comunità, è stato fatto risalire a una questione di proprietà.
Certo l’appropriazione, le rapine, i saccheggi sono stati fattori importanti nel genocidio, come la restituzione è un tema centrale nei gacaca -fortunatamente proprio la restituzione è una delle poche cose che il gacaca ha la competenza e il potere di fare.
Qui comunque la riconciliazione non è affatto l’abbraccio tra vittime e carnefici in lacrime. “Non c’è perdono e non si dimentica” commenta Sylvie Umubyeyi, autrice di un libro sui sopravvissuti, e tuttavia c’è una giustizia che apre uno spazio alla verità e che permette di sciogliere la paura. Questa è la base della riconciliazione, qualcosa di molto prosaico che si costruisce nella vita quotidiana e concreta, nel rapporto coi vicini. Il futuro è lì…
Ricordi forti e indelebili, memorie bizzarre e incoerenti e grave oblio esistono tutti assieme in un continuum di innocenza e colpa. La piena verità probabilmente non verrà mai alla luce, né nelle corti gacaca né fuori, ma la nazione deve tirarsi fuori a partire da tutto questo. Uscirà forse un fac-simile, un simulacro di una società che funziona e in cui le persone di entrambe le parti -i parenti di chi è stato ucciso e i loro assassini- riescono a convivere... Insomma, ciò che sta accadendo è insoddisfacente sotto molti punti di vista, ma nessuno è ancora riuscito a proporre nulla di meglio.
(www.dissentmagazine.org)
29 maggio 2007
101 euro di aumento agli statali, che lavorino o no. Agli operai, che eccome se lavorano, andrà meno. Agli altri? Lo studio di settore?
Mettiamoci pure il cuore in pace: tornano.
La citazione
... rinnovare il socialismo... pare che si intenda per ciò qualche ricucimento di dottrine filosofiche, giuridiche, economiche. Tutto ciò può riuscire anche interessante se operato da qualche uomo di genio. Ma l’essenziale sarebbe evidentemente nel campo della pratica immediata. Il giorno ove vi fossero socialisti (o comunisti) che praticassero rigorosamente l’uguaglianza e la fraternità senza aspettare le norme d’una nuova legislazione che, cioè, ritenessero incompatibile con la loro fede l’accettare o trasmettere patrimoni per eredità e l’usufruire di un reddito superiore a quello medio di un proletario, che si sentissero obbligati a non ricorrere in nessun caso all’apparecchio della giustizia borghese, che rifiutassero sempre con assoluta intransigenza la parte di padrone, di ‘superiore’, di ‘dirigente’, (cioè ogni genere di rapporti in cui invece di ‘comunione’ fra esseri umani vi è ‘subordinazione’ deli uni agli altri) -quel giorno si potrebbe parlare di una rinascita del socialismo". (Andrea Caffi)
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