Ave Maria
Udine, 7 ottobre ‘47
Camillo, ora mi sento ancora più solo, anche se mia madre è accanto a me, morta. Che dono è la morte! Ora mi pare di comprenderti ancora di più, perché è da anni, da tanti anni, che tuo padre ti segue muto. Come ti avrei voluto vicino, in questi giorni di luce e di mistero! Sono come un trasognato che gira per le strade della terra.
Non vedo che la morte, dappertutto. Ora mi tormenta questo pensiero: non so se la morte sia un’uscita o un ingresso. Perché Dio è qui, qui, in questa vita. E’ tremendo. Prega per me. Credevo di avere risolto tutto, e invece tutto si aggroviglia. Non so se devo dire un “requiem” o un “gloria”. Mia madre è santa. E l’ho sepolta io, con le mie mani: ho gettato io, per primo, una badilata di terra sul suo corpo. Noi, forse, siamo nati per seppellirci a vicenda; forse anche ci uccidiamo a vicenda. Mia madre è stata uccisa. Ti spezzerei il cuore se ti potessi raccontare tutto…
E ora, invece di ritornare a Milano subito, mi sono chiuso in esercizi spirituali. Otto giorni di silenzio. Sento solo il chiasso che mi fa Dio, dentro. Ed ho voglia di abbracciarti, come si abbraccia una tavola nel naufragio. Ma ho voluto mortificarmi. Rendermi più simile a mia madre, che ora ha la bocca piena di terra. La vita, la morte, la fede, forse sono altro da quello che noi andiamo predicando, adulterando; forse, questa che noi conduciamo non è che mimica. Ma è meglio non parlare: si rovina il Verbo. Meglio le cose, le inespresse cose, forse? Mia madre ora è ritornata alle cose, nella inespressione delle cose, in viaggio nella terra, come le pietre. Era fredda fredda quando l’ho baciata l’ultima volta: tesa e irrigidita all’infinito. Bellissima, come non la vidi mai prima. L’ho chiamata, ma non mi ha risposto, eppure mi sentiva.
Quella non era la morte, era il Verbo. Il Verbo è inespressione. Iddio deve aver sempre socchiusa la bocca, come i morti; per dire una cosa infinita, che però non dice mai: questa è la verità infinita, che noi diremo morendo. La Verità che ci costa la vita. E se anche Iddio parla, sono le cose, le cose finite: è la creazione, ma non il Verbo. Bisogna ritornare a quella tensione, che è la morte, forse, per arrivare a quel punto. All’arte, alla Verità.
Camillo, il nostro peccato è dire delle parole inutili; è fare letteratura anche sulla morte che è una cosa antiletteraria per eccellenza. Siamo rovinati noi. Mia madre ha tanto taciuto quanto io ho parlato. Ho quasi orrore di me. Perché non sono andato a seppellirmi nel silenzio, quando volevo, quando sentivo dentro questa voce? Forse io, nella mia vita, parlo per vendetta, per paura di quel silenzio che è il Verbo. Imitiamo appunto Dio nella creazione, ma non nella generazione del Verbo. “Ipse dixit et creata sunt” mentre per il suo Verbo non dice mai, ma vive, e basta. Ora cosa è la morte, dunque? Questo silenzio fa paura. E la Risurrezione di Cristo cosa è? E’ una perdita o è un guadagno? Forse anche la Risurrezione di Cristo, probabilmente, è un’altra cosa da quella che noi crediamo. E’ l’uomo che muore sempre, che tace sempre, a contatto del Verbo che vive sempre; ecco che cosa è la Risurrezione di Cristo: la natura imperibile congiunta al Verbo, la natura fatta immortale per la morte; le cose e le parole finalmente unite al Verbo, all’Inespresso, al Muto, alla Taciturnità.
Camillo, cosa ho capito in questi giorni! Cose che non ti posso dire. Mia madre era una monaca nel paese. Non si è accorto nessuno di lei in vita; si sono accorti tutti nella morte. Scusami. Volevo solo dirti che ti voglio più bene oggi che mai. Perché i miei pensieri mi fanno paura. E io ho bisogno di te. Tu sei come il mio “obiectum”, la mia parete, contro la quale io vengo a sbattere, a infrangermi. Ed ora pensandoti, ti sento necessario. E domani dovrò lasciarti e partire: anche questo passo verso il quale mi sono sporto, mi fa paura. Che succede di noi? Anzi, cosa ci succede? Non so cosa farò domani, solo.
Penso agli amici come alle mie mani, con le quali palpo le cose, con le quali mi nutro e consacro. Anche ad essi vorrei scrivere. Ma aspetto un momento più calmo, più disteso; specie per Apollonio. Io, forse, scandalizzo tutti. Sono un distruttore. Tanto che ho voglia di piangere.
Tuo Davide.