Hans Koschnik nel 1995 è diventato sindaco di Mostar su mandato della comunità europea. Oggi presiede l’ Ufficio per il Ritorno dei Rifugiati, la Reintegrazione e la Ricostruzione in Bosnia-Erzegovina, presso l’ambasciata tedesca a Sarajevo.

Può raccontarci della sua infanzia?
Sono nato il 2 aprile 1929. I miei genitori erano politicamente impegnati, per cui hanno combattuto attivamente prima dell’elezione di Hitler, godendo per alcuni anni dell’"ospitalità" dello Stato di allora: mio padre ha passato cinque anni in prigione e mia madre due; io sono cresciuto con i nonni. Il destino normale di tutti coloro che erano contro il sistema. C’erano naturalmente anche delle difficoltà. Non era facile dover crescere senza genitori, ma ero in buone mani presso i nonni e sono cresciuto normalmente come tutti i miei coetanei.
Quando mia madre è uscita di prigione non riusciva a trovare lavoro e tirava avanti vendendo dolciumi nei mercati, per cui siamo vissuti in una situazione di povertà. Ma come vedete sono cresciuto bene, almeno nel fisico. La difficoltà concreta stava nel fatto che non potevo frequentare il ginnasio, perché provenivo da una famiglia politicamente scomoda. I miei genitori appartenevano alla gioventù comunista. Mio padre era diventato segretario del sindacato. Entrambi credevano che Hitler avrebbe scelto la guerra ed avevano ragione. Ruppero con Mosca e con Stalin, dopo che questi concluse il patto con Hitler, e da lì in poi si considerarono liberi. Io ho ricevuto una maggiore formazione dai nonni.
Comunque in seguito non è stato tanto difficile organizzarsi politicamente nel ’45, all’interno della Spd, perché volevamo tutti evitare sistemi totalitari. Il resto è vita normale. Ho iniziato a lavorare come l’impiegato; ho lavorato anche nel sindacato, infine sono tornato nell’amministrazione pubblica. Sono diventato deputato abbastanza presto (1955); 8 anni dopo ero ministro degli Interni del mio paese e 4 anni dopo Capo del Governo. Questo non perché fossi particolarmente bravo, ma perché si voleva fare largo ai giovani e io allora ero l’unico dei giovani candidati, da tempo attivamente impegnato, e poi forse si voleva l’eroe giovane (io non ero un eroe, ma giovane sì).
Cosa mi dicevano i nonni dei miei genitori? Naturalmente sapevo che erano rinchiusi, ma non se ne parlava molto, perché se i bambini avessero aperto la bocca, i genitori ne avrebbero subito le conseguenze. Così ho imparato a tacere.
Tutta la verità l’ho saputa solo a 15 anni. Mio padre mi raccontò molte cose e mi diede un consiglio per la vita: disse che questo sistema non sarebbe durato a lungo, e se noi giovani un giorno avessimo costruito qualcosa di nuovo, dovevamo ricordarci che i democratici di vario tipo hanno sempre più in comune, di coloro che sono contro le libertà democratiche. E questo consiglio l’ho sempre messo in pratica. E’ per questo che nella vita politica ho potuto giocare un ruolo anche presso coloro che la pensavano in modo diverso.
Lei aveva 4 anni nel 1933 e 10 anni nel 1939. Ha ricordi della notte dei cristalli, della persecuzione degli ebrei, dell’inizio del terrore?
Non molti. Sarebbe sbagliato ed esagerato enfatizzare ciò che ricordo. Posso dire che sulla via per raggiungere la scuola c’era la casa di riposo degli ebrei e dopo quella terribile notte vidi quegli anziani per strada, in pigiama, sorvegliati dagli uomini della SA, tremanti dal freddo. Questa è la prima immagine che ho serbato di quel periodo; l’altra sono le donne ebree ungheresi deportate nel ’44. Molto più visibili erano i prigionieri di guerra sovietici del 1943-45: in pessime condizioni, smagriti, costretti a lavorare. Nessuno di noi può dire di non aver visto. L’ingiustizia era davanti ai nostri occhi. E’ vero che chi non ha collaborato, esclusa una piccola minoranza, è rimasto indifferente, non ha fatto nulla. Purtroppo nei regimi totalitari la resistenza può costare la vita. E gli uomini non sono tutti eroi. Questo va considerato quando si parla di coloro che non erano d’accordo, ma non hanno osato combattere. Resta grave che in così tanti abbiano fatto finta di non vedere. Ma ciò non è successo solo in Germania.
Rispetto ai lavoratori coatti, sicuramente nelle aziende e fra la gente se ne parlava. Ma parlarne metteva in pericolo la famiglia. La paura era un elemento importante che portava a tacere. Non è una scusa, ma la dura realtà. La paura genera violenza o tollera violenza.
Lei, da bambino, poteva avvertire che ...[continua]

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