Padre Lucio Pinkus, dei Servi di Maria, psicologo, per 15 anni ha lavorato al reparto di neurochirurgia del Policlinico di Roma, ha insegnato Psicologia dinamica all’Università di Venezia. Attualmente è membro del Comitato Nazionale per la Bioetica.

In una logica, ormai dominante, che esige sempre più competenza e omogeneità dei casi, il dolore può essere trattato come le altre malattie? Questa impostazione cosa comporta?
Non c’è dubbio che il dolore è difficilmente restringibile per competenza. Questo ha fatto sì che in medicina sia stato assunto nell’aspetto più neutro possibile, cioè come una reazione di segnale algico del sistema nervoso. La terapia del dolore è così diventata una branca specialistica, praticata per lo più da persone provenienti da esperienze di anestesiologia, parzialmente anche da neurologi, che ha come obiettivo lo studio, la soppressione o la diminuzione del segnale doloroso. La terapia del dolore ha isolato un settore che possiamo chiamare “l’organo del dolore” e cerca di curarlo.
Che cosa non cura? Non cura la sofferenza, che è il vissuto del dolore. Se il dolore è quantificabile, descrivibile, anche circoscrivibile, se è proporzionato a determinati fattori di natura appunto fisiopatologica, spesso neurofisiopatologica, la sofferenza è il modo soggettivo con cui ciascuno vive e attraversa il proprio percorso di dolore. La sofferenza è quel senso di incomunicabilità della propria esperienza, di disgregazione delle immagini su cui uno ha fondato la propria esistenza, che sono anche sociali: autonomia, efficienza, eroicità, senso di colpa perché si fa male a coloro che si amano, bisogno di essere accolti, accettati. La sofferenza allora non è contenibile mediante strumenti farmacologici, chirurgici o elettrofisiologici. E’ qualcosa che fondamentalmente, pur con l’aiuto necessario degli altri strumenti, avrebbe bisogno di relazioni in cui trovare senso. C’è un competente per tutto questo? Fuori dell’ospedale si è trovato un escamotage: per una certa gamma di sofferenze c’è un competente che è lo psicoterapeuta, ma c’è una sofferenza che fa parte di una ferita esistenziale, e di cui il dolore è intriso, per la quale non c’è consulente o competente di sorta. Diventano fondamentali il modo di vedere la vita oppure fattori di eticità, di civiltà, di solidarietà. E in questo la terapia del dolore non può che essere povera, parziale e, volendo essere paradossali, inutile, perché non accoglie questo aspetto soggettivo. Una persona non avrà più il segnale fisico di ciò che vive e che, cionondimeno, continuerà a vivere.
Il dolore diventa un oggetto da standardizzare in protocolli, e se qualcosa esce dai protocolli, allora è il paziente a “non collaborare”, il che diventa pure colpevolizzante. In certe situazioni, come per i trapianti, l’amputazione di arti o nel caso di un ragazzo divenuto tetraplegico per un tuffo riuscito male, è molto importante trovare chi aiuti a costruire il senso di un dolore non secondo la propria prospettiva, ma secondo quella di chi è portatore della sofferenza. Solo a questa condizione possono avere un loro ruolo, in molti ospedali, alcune presenze, come il cappellano di religione cattolica: che la sua ottica sia quella di alimentare la vita secondo il fiume di ciascuno e non in un’unica cannella.
Ma si sta diffondendo un atteggiamento di rimozione del dolore, di fuga dall’esperienza del dolore?
Nella nostra cultura -e dico nostra non per contrapposizione alla cultura orientale, che in Italia viene idealizzata non poco. Chi ha avuto modo di andare in Oriente si è reso conto che l’esperienza del quotidiano non è quella dei libri santi, così come da noi non è quella della Bibbia- ebbene, nella nostra cultura occidentale, il dolore viene ormai ritenuto uno spiacevole incidente da rimuovere. La logica tecnologica porta ormai a pensare che in ogni situazione “tutto è possibile”.
Siamo entrati in una dimensione in cui noi siamo come assorbiti dall’inseguire le cose e non le viviamo più. E’ come se fossimo vissuti dal tempo, anziché vivere il tempo. Si dice: “Non abbiamo tempo per parlare, perché c’è tanto da fare”, che vuol dire: “Non ho tempo per vivere”.
In quest’ottica si sono un po’ perse alcune specificità delle emozioni umane che non sono trasferibili in luoghi, tempi e misure, volute e controllabili, ma richiedono semmai degli stati d’animo: la capacità di attesa, la capacità di filtro, di comprensione e di rigenerazione personale di quel ...[continua]

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