William Raffaeli è responsabile del modulo di Fisiopatologia clinica del dolore presso l’ospedale Infermi di Rimini.

Qual è lo stato attuale delle terapie del dolore a livello nazionale?
Da decine di anni ormai coltiviamo la speranza di far nascere in maniera capillare le terapie del dolore, ma abbiamo grandi difficoltà perché sono branche povere di una cultura precedente, e di codici istituzionali entro cui far valere la propria dignità. Manca ancora una legislazione che permetta di dire se e quando devono nascere, dove devono essere allocate, ogni quanti abitanti. E questo perché? Perché la terapia del dolore, non essendo nata come branca disciplinare, ma spontaneamente da alcuni soggetti che se ne erano interessati, l’avevano approfondita e avevano iniziato a sviluppare tecniche più o meno opportune, s’è diffusa un po’ a macchia d’olio fra tutte le specialistiche mediche, partendo dal concetto che il dolore non può appartenere a un’unica disciplina, ma abbisogna di un insieme di specialisti. Questo, però, ha fatto sì che la disciplina rimanesse ai margini delle varie branche e ne ha ostacolato lo sviluppo.
L’anestesia ha tentato di far valere la sua patria potestà in primo luogo perché, effettivamente, le terapie del dolore nascono in ambito di anestesisti. Ai tempi della guerra di Corea un certo Bonica, italo-americano, creò una catena di cliniche perché molti pazienti soffrivano di dolori cronici benigni conseguenti all’amputazione di arti e a ferite di guerra. In secondo luogo perché è in ambito anestesiologico che si è creata la possibilità di mettere in campo un insieme di procedure.
Purtroppo l’anestesia ha messo la terapia del dolore al IV° anno della propria specialistica e lì, secondo me, l’ha abbandonata, senza preoccuparsi se in ogni ospedale provinciale vi sia un servizio di terapia per il dolore, se non al pari dei servizi di anestesia e rianimazione, almeno in una dimensione sperimentale.
Quindi la cosa è rimasta nelle mani di singoli medici, e la ricerca ne ha sofferto?
Le terapie per il dolore hanno avuto un andamento ciclico. Negli anni Sessanta c’è stata un’esplosione in virtù di tecniche che hanno dato grandi speranze e pochi risultati. Erano anche anni caratterizzati dall’ignoranza: molte sintomatologie dolorose erano state relegate nell’ambito del dolore cronico e nell’incapacità di curarne le cause ognuno finiva per metterci le mani senza, però, tirarne fuori granché. Si tentavano manovre cruente e miracolose -tagliare un pezzo di nervo qui, tagliare un pezzo di cervello là- che, però, esaurivano il loro effetto nell’arco di un giorno perché, poi, i dolori cominciavano da altre parti, specialmente nei neoplastici, dove il dolore è polimorfo e cambia continuamente sede, e nelle malattie in progressione. Pensiamo, per esempio, a Morica, che poi fu coinvolto a Roma al "Regina Elena" nello scandalo dei letti d’oro, ma che fu un grande pioniere in questo settore: aveva inventato tecniche di distruzione della parte ipotalamo-ipofisaria per lenire i dolori da cancro.
Dopo questi tentativi si è passato a un uso, diciamo, più da amanuensi casalinghi: usare bene il farmaco, ridare un po’ di attenzione alla psiche, proporre metodiche che stimolassero in ogni luogo un minimo di attenzione al problema. L’approccio diventava localistico. E questo era giusto perché, tranne rarissimi casi, il dolore non è una patologia che si può guarire per sempre, magari andando in Svizzera. La sofferenza è diffusa e per dare un servizio efficace, bisogna operare un ascolto efficace, seguendo i pazienti nel tempo, proiettando gli sviluppi della malattia sulle altre invalidità del paziente.
Teniamo presente, e lo sappiamo dagli anni Settanta, che le patologie da dolore rachideo sono una delle cause di maggiore invalidità della popolazione, con un costo sociale, in termini di economia sanitaria, altissimo. Il cosiddetto “fuoco di Sant’Antonio”, malattia che se non viene presa in tempo sviluppa nevralgie post-erpetiche devastanti che rovinano letteralmente la vita e possono spingere sull’orlo del suicidio, colpisce quasi 3 abitanti ogni mille. Oppure pensiamo all’insufficienza circolatoria che, allorquando il chirurgo non può più intervenire, procura dolori lancinanti che possono procurare anche la perdita degli arti. Ciononostante, la progettualità sanitaria è rimasta indifferente alla tematica del dolore.
Il motivo di questo disinteresse qual è?
Il motivo è innanzitutto culturale, nasc ...[continua]

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