Gemma Martino è il direttore della Divisione di Terapie Fisico- riabilitativa per operati di tumore presso l’istituto tumori di Milano.

Come è arrivata alla decisione professionale di fare il medico e, in seguito, a occuparsi del problema dei tumori?
Per scelta genetica. Avevo nella mia famiglia medici e avvocati, mi toccava essere medico e devo dire che non è stata una scelta. Da piccolina già avevo questa idea, certo non avrei mai pensato all’istituto dei tumori, pensavo che sarei andata a lavorare come Albert Schweitzer in Africa, i soliti ideali... Ma questo desiderio di spazi e di umanità è rimasto nel tempo.
E anche occuparmi di tumori è stata una cosa accidentale. Mi sono ritrovata, già da studente di medicina, a conoscere delle persone che lavoravano all’interno dell’istituto, mi hanno fatto conoscere l’istituto e sono rimasta all’interno di questa struttura.
E a occuparsi in particolare di tumori al seno?
E’ stata una cosa molto sofferta perché all’interno dell’Istituto io praticamente non vedevo pazienti oncologici. La mia percezione, con gli ammalati di tumore, era particolare perché lavoravo in sala operatoria, come anestesista e come terapista del dolore e quindi c’era un’utenza muta. C’era un mio desiderio e una mia capacità di essere attiva, ma senza che potessi entrare nell’emozione del paziente. E questo lavoro, da donna a donna diciamo, è arrivato con una grossa crisi personale, nel senso che come terapista del dolore ho cominciato ad ascoltare e a capire il disagio dei pazienti, mentre come anestesista erano i corpi dei pazienti che mi interessavano. Ho capito che la situazione doveva comportare non solo una crescita professionale mia ma anche una crescita umana e ho cominciato a lavorare prima su di me, su un’informazione permanente verificando le cose che stavo facendo e piano piano ho cominciato ad avere una buona comunicazione con il paziente.
Con le donne è stato anche questo un po’ occasionale, perché l’istituto ha un’utenza con pazienti che hanno avuto un cancro al seno molto più elevata di altre patologie. Per questo è una struttura trainante. Abbiamo 1200 donne operate all’anno, è chiaro quindi che l’utenza maggiore di questo istituto è un’utenza femminile. Quindi, per forza di cose, la mia specializzazione è avvenuta maggiormente sui tumori femminili.
Lei ha elaborato dei percorsi di riabilitazione per le donne mastectomizzate che sono considerati particolarmente efficaci ed innovativi; può illustrarci i principi su cui ha fondato e fonda i suoi interventi?
In realtà il primo percorso riabilitativo l’ho operato nei miei confronti e nei confronti dei miei assistenti e dei miei collaboratori. Perché non c’era mai stato un discorso riabilitativo all’interno dell’oncologia e perché la riabilitazione viene sempre intesa come un discorso fisico, di trattamento degli esiti, mai di prevenzione, mai di integrazione somato-psichica. Noi veniamo da una visione organicistica dove il corpo è molto più funzionale, e quindi in primo luogo abbiamo dovuto rivedere il nostro disagio nel considerare la sofferenza dell’altro che è una sofferenza globale. Abbiamo lavorato prima su di noi, come equipe, e solo dopo abbiamo cominciato a dare un modello riabilitativo.
Ma riabilitativo è un brutto termine. Quando faccio lezione ai miei chiedo sempre: “cosa vuol dire per voi riabilitazione?”. “Ah sì, riabilitazione è tornare come prima”, “in genere c’è una mutilazione fisica”... No, si tratta di lavorare per fare un percorso di medicina di qualità, io non mi sento una riabilitatrice, mi sento di avere operato un percorso oncologico, nella fattispecie di senologia oncologica. E di di avere dato soprattutto un indirizzo di qualità di intervento con le persone con cui sono entrata in contatto.
Riguardo ai nostri principi, poi, il primo che attuiamo è la completa assenza di principi... Nel senso che non abbiamo nessun programma, abbiamo una serie di possibilità perché ci siamo professionalizzate molto, sia in termini oncologici che in termini psico-terapeutici, che somato-psichici che creativi. Noi non parliamo neanche più di terapia; non sappiamo neanche cosa stiamo innescando quando lavoriamo nell’incontro con una persona.
Vi incontrate prima dell’operazione?
Qualche volta prima, ma soprattutto ci siamo dedicati al post-intervento perché questa è una struttura chirurgica ed entrare in relazione prima in una struttura che è condizionata dal tempo dell’intervento, dal tempo della managerialità del ricover ...[continua]

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