Tu fai di professione il ricercatore sociale. Cosa puoi dirci di quello che sta succedendo?
Devo dire che osservando le dinamiche di trasformazione della società -dal basso, per fenomeni come quello, ad esempio, dell’immigrazione, o dall’alto, quando mi occupo dell’impatto della tecnica sui mutamenti della composizione sociale- mi ritrovo ogni volta assolutamente non entusiasta di questo processo di modernizzazione e di cambiamento accelerato.
E succede anche che quando rimango nel campo dell’osservazione sociale trovo soggetti con cui posso parlare di questo, dei miei dubbi, delle mie perplessità, ma quando poi si va sul terreno della politica provo un senso di frustrazione e di angoscia perché trovo tutti entusiasti essenzialmente di due parole chiave: “nuovo” e “rivoluzione”. Parole che io non uso, perché al posto del termine “nuovo” preferisco dire “la contingenza che ci sopravanza”, e non uso il termine rivoluzione perché, pur avendola desiderata un tempo, ritengo che in questo paese non si sia ancora fatta una riflessione seria su cosa è stato un processo di cambiamento radicale. Ho la sensazione che tutti quanti siano molto attenti alla punta della piramide, a quello che avviene dal punto di vista delle riforme istituzionali e dal punto di vista della riforma della politica, e invece totalmente disinteressati a quello che invece secondo me è il vero processo di mutamento in atto: il mutamento avvenuto nella composizione sociale e nella rappresentanza degli interessi.
Usando una metafora storica mi chiedo, ad esempio, se il vero cambiamento sia avvenuto nel salone della Pallacorda o nella Piazza della Bastiglia. Tutti sono molto attenti a quello che avviene nella Piazza della Bastiglia ma io credo che il grande cambiamento sia avvenuto nel salone della Pallacorda.
La mia convinzione profonda è che il vero mutamento, avvenuto nel ciclo degli anni ’70 e ’80, è quello che è avvenuto nella composizione sociale e nelle forme di convivenza, da cui poi discende il resto.
Che cosa è avvenuto nella composizione sociale? In primo luogo un passaggio da una società verticale a una società orizzontale. La società verticale era quella basata sulla centralità del lavoro industriale -il fordismo, avrebbe detto la cultura di parte operaista- che si basava su appartenenze certe e identità di classe, che aveva rappresentanze formali e sostanziali che collegavano il centro alla periferia.
La società orizzontale invece è il risultato proprio del grande mutamento che è avvenuto sul terreno del lavoro: passaggio dal lavoro ai lavori, l’esplosione del lavoro autonomo, che ha introdotto una logica di ricerca del massimo di opportunità possibile, con la conseguente caduta dei meccanismi di solidarietà collettivi. E soprattutto nella società orizzontale emergono bisogni ed interessi che fanno riferimento al genere, al territorio, a specificità, a particolarità. E ovviamente non sempre i gruppi, le associazioni, gli interessi che si formano hanno l’interesse generale come razionalità del proprio scopo. Emergono rappresentanze che si esauriscono nello spazio di un sabato sera, cioè appena raggiunto il loro scopo. Dentro il meccanismo della orizzontalità sociale viene meno il riferimento delle categorie sociali di prima e appare il concetto di moltitudine, termine che esprime bene il disagio di un ricercatore sociale nel definire le cose.
Dentro la moltitudine quali sono i processi? Dentro la moltitudine ci stanno i comitati dei cittadini che incorporano valori della società solidale -un comitato di cittadini quello che lotta per la qualità ambientale del proprio territorio- ma anche quelli che incorporano valori non solidali, come, ad esempio, quello che lotta per non avere gli immigrati nel suo territorio. Sono tutti e due comitati di cittadini, ma certamente, fra i due, c’è una profonda differenza.
Essenzialmente ritengo che la categoria fondamentale con cui noi facciamo i conti oggi sia quella dello spaesamento. Più che una certezza di grande cambiamento abbiamo lo spaesamento di soggetti che hanno perso un quadro di riferimento, che non sanno bene qual è il processo del futuro.
Se prima la città aveva un suo centro e, organizzata per cicli concentrici, aveva una periferia, anche stando nella periferia, se tu avevi un bisogno, riconoscevi quello che aveva un bisogno uguale al tuo, ti organizzavi con lui, sviluppavi il conflitto, potevi pensare di essere incluso. Tant’è vero che la società italiana di ...[continua]

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