Quale era la tua attività prima della guerra?
Dal punto di vista professionale, sono una pediatra specializzata in malattie infantili, e ho lavorato come tale fino al 15 agosto 1990. Sono stata il primo medico ad essere licenziato perché parlava una lingua diversa, infatti parlo l’albanese. Sono una dei 2552 dottori dello staff medico che sono stati licenziati a partire dal 1990, perché appartenevamo a un’etnia diversa. Nel 1992 ho intrapreso un progetto di sviluppo di un centro di donne dove poter trattare i problemi particolari delle donne del Kosovo, come pure quelli più generali, relativi alla condizione delle donne nel mondo.
Entrammo in questo progetto chiamato "Ponti di donne tra i confini" e con "Spazio pubblico di donne" di Bologna cercammo di creare un centro a Tuzla, "Amica Tuzla", e un centro di documentazione delle donne a Pancevo.
Erano veramente ponti di donne tra confini e tra etnie diverse, tra culture diverse e tra altre diversità. In questi centri sviluppammo in primo luogo la tutela dei diritti delle donne e dei diritti umani con un’attenzione specifica al diritto alla maternità, perché questi erano appunto i diritti sistematicamente negati dal governo della Serbia. Perciò dal 1992 al 1994 abbiamo lavorato come gruppo informale occupandoci dell’educazione delle donne e promuovendone i diritti. In seguito, dal 1994, abbiamo ulteriormente sviluppato il centro, chiamato allora "Centro per la protezione delle donne e dei bambini", in cui abbiamo lavorato fino al 23 marzo del 1999, quando io dovetti entrare in clandestinità perché la polizia voleva arrestarmi. Il 30 marzo sono stata deportata dal Kosovo con i fucili puntati addosso. La polizia arrivò alla porta dell’appartamento dov’ero, mi picchiarono, mi sbatterono con un’altra persona nella mia macchina e ci portarono al confine con la Macedonia, a Blace, dove rimasi 56 ore, prima di essere deportata in Macedonia. Lì ho cominciato con un nuovo centro, a Tetovo, dove c’erano molti deportati, soprattutto donne. Ci sono circa 50 mila deportati dal Kosovo solo a Tetovo città, e altri 40 mila in due campi profughi; e quasi il 70% di questi deportati sono donne e bambini, per cui è come se avessimo semplicemente spostato il nostro Centro da Pristina a Tetovo. Adesso stiamo portando avanti questo progetto in altre zone della Macedonia, in Albania e in Montenegro, dove c’è la maggior parte dei rifugiati e dove già abbiamo una rete di donne attive.
Qual è la situazione di queste famiglie di rifugiati?
Dipende dai casi, ci sono situazioni diversificate. La maggior parte delle famiglie deportate dal Kosovo nelle prime settimane sono arrivate separate perché in realtà erano già stati separati in Kosovo prima della deportazione: gli uomini dalle donne e dai bambini. Era il caos. E poi, dopo il loro arrivo in Macedonia, hanno cominciato a cercarsi e adesso ci sono famiglie che si sono riunite, ma ce ne sono ancora migliaia tuttora separate: bisogna ricordare che quasi un milione di persone sono state deportate dal Kosovo, la metà dell’intera popolazione, solo in questi due mesi.
E poi rimane il problema che nei gruppi di rifugiati che escono dal Kosovo non ci sono molti giovani uomini. Secondo diverse fonti, oltre 100.000, forse fino a 150.000, sono stati catturati, o comunque sono dispersi in Kosovo. Perché con la deportazione sono stati presi e separati. Oserei dire che forse sono addirittura più di 150.000 gli uomini che mancano all’appello, di cui molti forse sono già morti, o in prigione. Per il resto sono perlopiù andati con l’Uck.
Cosa pensi dell’intervento della Nato?
Sono veramente molto combattuta di fronte a un giudizio sull’intervento Nato. Lasciami spiegare, perché non vorrei ci fossero equivoci. Mi sono sempre considerata una pacifista e anzi per 9 anni ho preso parte al movimento pacifista ed ero molto orgogliosa di partecipare a quest’azione di disobbedienza civile in Kosovo. ...[continua]
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