Massimo Livi Bacci, demografo, è professore emerito dell’Università di Firenze e Socio dell’Accademia dei Lincei. Tra i suoi libri Storia minima della popolazione del mondo (il Mulino, 1998), Amazzonia. L’impero dell’acqua (il Mulino, 2012), Il pianeta stretto (il Mulino, 2015), In cammino. Breve storia delle migrazioni (il Mulino, 2019), I traumi d’Europa (il Mulino, 2020) e il recente Per terre e per mari (il Mulino, 2022).

Parliamo delle migrazioni. Prima di venire all’attualità facciamo un passo indietro. Uno dei capitoli più affascinanti del suo In cammino racconta la grande migrazione di massa fra Europa e America avvenuta fra XIX e XX secolo. Quali sono le cause di questa migrazione?
La grande migrazione ha avuto molte cause. La prima, ovvia, è che i due continenti erano in contatto fra di loro fin dai viaggi di Colombo: esisteva una capacità di traversare l’oceano, accresciuta nel tempo, ed esplosa con la navigazione a vapore. Naturalmente questo ha determinato la creazione di “strade marittime” di spostamento di masse numerose. Inoltre l’Europa, con la rivoluzione industriale, assistette a una produttività crescente e a un forte aumento della popolazione. La rivoluzione agraria generò sotto-occupazione, crisi e spossessamento dei piccoli proprietari agricoltori. Questo processo, a sua volta, ha generato una pressione demografica che ha trovato sbocco nella crescita dei centri urbani e nell’industrializzazione nei paesi più avanzati come l’Inghilterra. In altri paesi, come l’Italia, l’eccesso di offerta di manodopera fu assorbito dall’emigrazione, soprattutto verso le Americhe.
Erano mondi nuovi e vuoti, in pieno sviluppo, nei quali c’era un fortissimo bisogno di braccia: l’offerta trovò la sua domanda, che si concretò in un flusso migratorio -a volte, beninteso, condizionato anche da contingenze storiche, come la Grande Carestia irlandese.
Grosso modo il meccanismo è questo: l’Europa è ricca di braccia e povera di capitali; le Americhe sono povere di braccia e ricche di capitale naturale. Il tutto fu accelerato dalle capacità di trasporto e di interscambio: scese il costo della migrazione, che non era solo il costo del trasporto e degli spostamenti, ma anche quello per conseguire le informazioni necessarie o del primo inserimento nei paesi d’arrivo. Si allentarono i vincoli all’emigrazione: in teoria, da molti paesi, come ad esempio dall’Impero austro-ungarico, non si poteva emigrare senza un permesso speciale. Solo nella seconda metà del secolo si riconobbe, quasi ovunque, il diritto di emigrare. Inoltre, il flusso, almeno in una prima fase, si autoalimentò grazie al formarsi di catene migratorie: migranti chiamavano altri migranti.
Williamson e O’Rourke parlano di un fenomeno di convergenza fra le economie dei due continenti creato dalla migrazione di massa. Cosa significa?
Ci fu una certa convergenza perché, da un lato, in Europa, la perdita di popolazione fece aumentare i salari, soprattutto nelle campagne; in America, al contrario, l’afflusso molto forte di immigrati europei ne frenò la crescita. Questo determinò un certo avvicinamento degli standard di vita dei due continenti.
Tenendo fermo questo fenomeno della convergenza, e considerando che lo stock dei migranti nel mondo è aumentato negli ultimi vent’anni, con mete principali Europa e America del nord, c’è un pericolo fondato che le condizioni di vita in Occidente peggiorino nel futuro a causa delle migrazioni?
Direi di no. Gran parte dell’Europa ha una domanda potenziale di immigrazione. Il caso italiano ce lo dice esplicitamente: dopo le dichiarazioni di “centellinamento” dell’immigrazione da parte di Piantedosi, gli agricoltori si sono arrabbiati, così come i piccoli industriali e gli artigiani. Il nostro paese ha necessità di migranti. Nel medio periodo la mancanza di immigrati genererebbe un impoverimento della società. Naturalmente c’è una misura in tutto: è ovvio che non si possono spalancare le porte ma, ragionando a mente fredda, l’Italia, come altri paesi deboli demograficamente -Germania, Spagna, Giappone, tra quelli più grandi- hanno necessità di immigrazione.
Definisce spesso l’immigrazione come un fenomeno “strutturale”.
Esatto: non congiunturale, ma strutturale. Si torna, in un qualche modo, al concetto di riproduzione. Se non facciamo figli, li adottiamo.
In questo caso, come paese, adottiamo dall’estero un migrante di vent’anni, non diversamente da come una coppia adotta un bimbo di venti mesi. È un ...[continua]

Esegui il login per visualizzare il testo completo.

Se sei un abbonato online, clicca qui accedere, oppure vai alla pagina Abbonamenti per acquistare l'abbonamento online.
Gli abbonati alla rivista hanno diritto all'abbonamento online gratuito!