Leopoldo Grosso, psicologo e psicoterapeuta, fondatore dell’Università della strada (che si occupa di formazione sui temi del Terzo settore), è presidente onorario del Gruppo Abele. Per molti anni ne ha coordinato il settore Accoglienza.

Come in altre precedenti conversazioni vorrei partire con te dall’esperienza brasiliana del Reembolso através da leitura, che assegna un ruolo importante all’istruzione nella rieducazione delle persone detenute. Ecco, io mi chiedo come possa la nostra società esprimere una grande preoccupazione rispetto all’educazione dei giovani, che rappresentano il punto di partenza, e continuare invece a mostrarsi prevalentemente indifferente rispetto al carcere, che è un po’ il capolinea. C’è dell’ipocrisia nel discorso che riguarda la scuola.
Rispetto alla scuola c’è molta retorica. C’è una sorta di aureola con cui si vuole circondare la scuola italiana e l’impegno che vi viene profuso, che non corrisponde poi ai fatti, agli stanziamenti, e non corrisponde, ahimé, nemmeno agli esiti. Sappiamo che la dispersione scolastica italiana ha dei primati (in negativo) a livello europeo. Si parla oggi della problematica dei Neet, ovvero coloro che magari in parte assolvono l’obbligo scolastico, ma in gran parte no. Già questo è un problema che la scuola non riesce ad affrontare. Se la dispersione è ancora ridotta prima della fine dell’obbligo, dopo invece è drammatica. Noi sappiamo in cosa consista la cosiddetta mortalità scolastica nel biennio delle superiori e sappiamo come quei due anni, i primi dell’adolescenza, incidano sui percorsi dei ragazzi in base all’esito scolastico. È lì che si genera una grande frattura tra quello che è l’esercizio di una responsabilità e la possibilità di un apprendimento dentro un contenitore come la scuola e l’esserne fuori. La scuola, con i suoi pregi e i suoi difetti, comunque ritma la vita dei ragazzi, offre una casa nella quale puoi stare bene o male ma è comunque il tuo luogo di riferimento che ricorderai, nel bene e nel male, per tutta la vita. Nel momento in cui esci più o meno precocemente dalla scuola questi riferimenti quotidiani non li hai più. Non è un riferimento l’apprendistato e non lo sono neanche alcuni corsi professionali un tempo competitivi per coloro che avevano minori capacità o strumenti, possedevano “vocazioni” più manuali o mostravano difficoltà ad apprendere col pensiero astratto. Una volta questi corsi costituivano un’alternativa; oggi vengono portati avanti in maniera altrettanto teorica delle scuole a quinquennio. La scuola rispetto ai tanti giovani che ne escono precocemente, mantiene una responsabilità importante e ineludibile. Poi c’è la responsabilità che la scuola condivide al cinquanta per cento con il mercato del lavoro, ed è quella di non creare un nesso tra percorso scolastico ultimato e riuscito e possibilità occupazionale. La scuola italiana sicuramente gode ancora di buona e meritata fama per quanto riguarda la prima parte del ciclo primario, quindi soprattutto la scuola elementare. Una scuola inclusiva, una scuola che in questi anni ha fatto i conti con i processi migratori. Sappiamo che in alcune città, e in particolare in alcuni quartieri delle nostre città, gli alunni stranieri costituiscono quasi la maggioranza della classe.
Ciascuno con la sua cultura, ciascuno con la sua lingua. Ciascuno con la sua tipologia di famiglia immigrata retrostante. Sappiamo come il lavoro delle mini-équipe docenti delle scuole elementari generalmente sia stato efficace, sempre nei limiti del possibile. Man mano che si sale nell’ordine di scuola questa efficacia viene meno. E il punto più debole, diciamolo con chiarezza se vogliamo essere onesti e non retorici nei confronti della scuola, sono gli anni della scuola media inferiore. Quando l’alunno lascia il gruppo di due o tre insegnanti che dovrebbe essere riuscito a seguirlo dalla prima alla quinta elementare, si trova di fronte a un collegio di professori -otto persone- che non è più un’équipe di lavoro. Il consiglio di classe sembra più una riunione di tipo notarile… Fa votazioni, elargisce giudizi, ma sicuramente non lavora come un’équipe che collabora e si chiede, di fronte all’alunno X, quale progetto individualizzato gli è più consono. Lì si apre il primo buco. Un buco che diventa ancora più gigantesco nel biennio delle scuole superiori (sempre scuola dell’obbligo), dove ormai prevale il concetto di merito rispetto al diritto all’istruzione come dovere per tutti (al ...[continua]

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