Giuseppe Zaffarano è presidente dell’Associazione Lavoro Over 40, che si occupa di disoccupati in età matura.

Com’è nato il tuo impegno a sostegno dei disoccupati in età matura?
Dobbiamo tornare al 1995, periodo in cui per una ragione di mercato io stesso sono rimasto fuori dal mondo del lavoro. All’epoca ero un agente di commercio; erano gli anni in cui stava entrando in vigore tutto il discorso della privacy, che ha un po’ ucciso il nostro lavoro, che era prevalentemente di marketing. In breve mi sono trovato per strada. A quel punto ho cominciato a vendere tutto quello che si poteva, dalle schede telefoniche agli estintori. Ovviamente non mi bastava, per cui nei primi cinque anni mi sono fatto fuori la liquidazione e anche una buona parte di un appartamento che avevo. Ho poi lavoricchiato fino a quando sono andato in pensione, nel 2009.
L’associazione è nata nel 2003 a Milano. Devo dire che il mio impegno fin da subito è stato improntato a una visione molto pratica e operativa.
Chi è il lavoratore over 40 e che problemi si trova ad affrontare?
A quarant’anni succede che, se ti trovi senza lavoro, ti dici: “Chi se ne importa, ho tanta di quella esperienza che in qualche mese me la cavo”. Poi inizi a guardarti intorno e ricevi un sacco di risposte negative, che però non fanno mai riferimento all’età... Ti puoi imbattere nelle scuse più strane oppure nel silenzio assoluto; altrimenti puoi finire nelle braccia di quelli che io definisco “pirati commerciali”, che sfruttano la tua posizione a loro esclusivo vantaggio; parlo di aziende, spesso nate da poco, che tu magari aiuti a crescere senza averne alcun ritorno. Purtroppo ho conosciuto sulla mia pelle questo mondo.
I lavoratori in età matura si trovano così alle prese con un mondo che da un lato si riempie la bocca di affermazioni tipo: “Gli over 40 e gli over 50 sono il nostro prezioso pane” e poi di fatto li rifiuta, perché quando si tratta di fare selezioni, sono i primi a essere lasciati fuori.
Il risultato è che queste persone in età matura devono affrontare una serie di difficoltà importanti, che sono economiche ma anche psicologiche e sociali.
Ora stiamo facendo un corso sul curriculum; ebbene, giusto un paio d’ore fa mi è arrivata una mail di una persona che, sconsolata, mi ha scritto: “Guarda, è inutile che mi facciate fare il corso sul cv, tanto le aziende non mi prendono”. E continuava raccontando di avere due diplomi, una laurea, vent’anni di esperienza nel mondo informatico, e oggi fa la guardia giurata. Ci sono anche tanti dirigenti che perdono il lavoro.
Purtroppo da anni combattiamo contro una colpevole sordità da parte delle maggiori istituzioni. E le comunità locali, quelle della piccola cittadina, del piccolo comune, a cui i lavoratori over 40 si rivolgono per ottenere degli aiuti, anche volendo non hanno gli strumenti, hanno le armi spuntate.
Succede così che questa generazione “cerniera” che, da un lato, ha una famiglia, dei figli magari in età scolare avanzata, e dall’altro ha i genitori di cui occuparsi, va in crisi totale. Il fatto di perdere il lavoro rischia infatti di portare con sé anche la perdita della dignità psicologica e personale, perché all’improvviso non possono più far fronte a impegni economici presi in precedenza, che possono essere il prestito per l’acquisto di una vettura o peggio di una casa. Non di rado la disoccupazione porta alla crisi di matrimoni che magari stavano in piedi con lo stuzzicadenti.
Ma poi il riflesso sociale più forte è nei confronti dei figli, a cui vengono sottratte le prospettive future, perché non possono continuare l’università o andare all’estero a studiare. Ci sono anche i casi in cui i figli si danno da fare e aiutano i genitori, ma questo resta un dramma sociale molto forte.
Il secondo lato della cerniera sono gli anziani genitori, i quali talvolta possono aiutare i figli, ma più verosimilmente si aspettano che siano i figli ad aiutare loro.
Non a caso ho parlato di un dramma sociale, che è trivalente nel senso che oltre alla propria crisi personale, coinvolge i propri figli e anche i genitori anziani.
Dicevi che le istituzioni non vedono il problema nella sua gravità.
Si sente sempre dire che bisogna aiutare i giovani, che dobbiamo promuovere le donne, ecc. Ora, incentivare l’assunzione di giovani e donne è una cosa molto bella, però in particolare quando si parla di giovani bisognerebbe aver presente i numeri. Nel senso che, pur registrando una percentuale molto elevata di disoccupazione, in realtà la fascia 15-24 anni ammonta a circa 600.000 persone. Mentre le classi superiori, 25-34, 35-44, 45-54 sono circa un milione. Per questo io sostengo sarebbe più opportuno eliminare gli incentivi e ridurre complessivamente il costo del lavoro.
Ma quindi esiste un problema di discriminazione per età?
È un tema sul quale ci battiamo dal 2003. Collaboriamo anche con la Presidenza del consiglio nell’individuazione dei casi in cui nella selezione emergono discriminazioni per età, che tradotto significa che ci sono molti annunci che indicano l’età desiderata del lavoratore o lavoratrice. È una cosa vietata dalla legge.
Noi, tutte le volte che incappiamo in qualche formula di questo tipo, lo segnaliamo all’Unar, Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, che può avviare delle indagini, ma che fondamentalmente cerca in via bonaria di diffondere una cultura antidiscriminatoria; noi da parte nostra scriviamo a queste aziende per avvisarle che esiste una legge.
Anche in questi casi, riceviamo le risposte più strane, più assurde. D’altra parte, due anni fa, prima del Covid, ho assistito a due concorsi del Senato -del Senato!- dove pure emergeva una discriminazione verso gli over 45!
Hai cominciato a occuparti di questo problema ormai vent’anni fa, cos’è cambiato?
Non è cambiato molto. Se non che quelli che vent’anni fa avevano quarant’anni adesso stanno andando in pensione e sono stati sostituiti da altri quarantenni. La fascia 40-55 anni è rimasta quella più problematica. Anche i profili professionali sono rimasti più o meno gli stessi: si va dall’impiegato all’operaio, al dirigente, al direttore…
Qualche cosa abbiamo ottenuto nell’ambito della discriminazione per età, ma qualche virgola, niente di più. È aumentata la sensibilità da parte delle istituzioni, ma neanche poi tanto. Da parte delle imprese invece siamo assolutamente a zero, tranne qualche mosca bianca; anche i sindacati sono assenti su questo argomento.
Servirebbe una ristrutturazione radicale delle politiche attive. Qualcosa è stato fatto; il problema è che deve cambiare la mentalità, il concetto di lavoratore. Mi spingo a dire che, per come la vedo io, bisognerebbe smettere di parlare di “classi” imprenditoriali, operaie, ecc. e focalizzarsi su una necessaria collaborazione tra i vari soggetti. L’imprenditore deve cominciare a capire che dall’altra parte non ha solo un lavoratore ma anche un potenziale collaboratore e il lavoratore deve capire che dall’altra parte non ha un contendente, ma un’azienda che, se aiutata, a sua volta può aiutare il lavoratore.
I lavoratori in età matura hanno un problema di non adeguatezza rispetto alla formazione? Penso soprattutto alle cosiddette nuove tecnologie...
È un tema molto complesso. Intanto sarebbe importante iniziare a parlare seriamente di life long learning, cioè di formazione durante tutto il corso della vita, idea che negli ultimi anni è stata un po’ abbandonata. Poi non è proprio del tutto vero che quando si sale con l’età le competenze non ci sono, anzi. Per dire, io ho 77 anni ma credo di bagnare il naso a tanti giovani dal punto di vista informatico. Insomma puoi tranquillamente trovare il lavoratore anziano o maturo molto più competente del giovane. Le aziende dovrebbero imparare a guardare al merito, prima che all’età. A ogni modo io non vedo contrapposizione perché, se da un lato occorrono delle competenze, dall’altro conta l’esperienza. Quando si riescono a mettere assieme la competenza del giovane con l’esperienza del maturo si ottengono dei risultati ottimali, perché l’adulto può fare un’azione di mentoring rispetto al giovane indicandogli delle strade, evitandogli degli errori.
Per questo dico che si dovrebbe lavorare sia sulla formazione, ma anche sulla intergenerazionalità, cioè sulla capacità di interagire tra il giovane e l’anziano. Certo, non è facile, perché nella pratica ci sono tutta una serie di complicazioni. Non di rado le aziende preferiscono un giovane anche perché lo riescono a controllare meglio…
Certamente il lavoratore maturo è in grado di negoziare di più di un giovane...
È una delle ragioni per cui si tende a non assumere l’over 40. In un posto di lavoro, poi, si instaurano tutta una serie di relazioni, non sempre sane. Un paio d’anni fa abbiamo fatto un corso per insegnare alle persone a parlare con l’interlocutore evitando di stabilire un rapporto padre-figlio, o figlio-padre. Non sembra, ma anche questi sono problemi...
Dal 2003 a oggi abbiamo fatto almeno una quindicina di progetti. Uno di questi consisteva nel prendere duecento persone in tutta Italia, validare le loro competenze e poi analizzare la loro capacità di empowerment, cioè di prospettive future, in termini di lavoro; una volta esaurito questo compito, si passava a un’esperienza di tirocinio che consentiva alle aziende di avere una persona gratis e ai lavoratori di mettere a disposizione le loro esperienze e di esprimere le loro competenze, con l’auspicio che nascessero dei rapporti di lavoro. Non vi dico i risultati...  sono stati disastrosi!
Perché disastrosi?
Le prime tre fasi sono andate bene, però nel momento in cui si doveva intraprendere il rapporto con le aziende, queste, fino a che il tirocinante era gratuito, se lo sono tenuto, finiti i tre mesi hanno tutte detto: “Arrivederci”!
Oggi mi sembra si lavori meglio, che ci sia maggior coinvolgimento dei vari attori del mondo del lavoro, imprenditori, sindacati, enti pubblici, cioè comuni e province, terzo settore
Dicevi che un altro dei problemi è che il mercato del lavoro è molto cambiato rispetto al passato.
In effetti uno dei problemi è che le persone in età matura guardano al futuro con la mentalità di ieri. Parliamo di persone che hanno cominciato a lavorare negli anni Ottanta, Novanta e che sono abituate a rappresentarsi il mondo del lavoro come fatto solo di lavoro dipendente.
Conosco una persona che ha una certa esperienza nello studio degli arredamenti delle case, degli appartamenti; aveva sempre lavorato all’interno di un’azienda; da un paio d’anni è a casa e però insiste a cercare qualcuno che lo assuma: “Anche se non mi assume, però mi deve dare un minimo per sopravvivere”.
Di questi casi ce ne sono tantissimi: quasi tutti cercano il posto fisso, il posto dalla retribuzione assicurata. Per carità, è giustissimo, però purtroppo le cose non stanno più così e bisogna avere il coraggio di fare questo salto. Quei pochi che ci provano, faticano moltissimo, però poi riprendono a lavorare. Sì, sono pochi. D’altra parte le storie di successo si possono contare sulla punta delle dita.
Quando l’esito è positivo, cos’è che funziona? Che fa scattare la molla giusta?
La capacità, la volontà di rischiare. La volontà di accettare una nuova situazione magari lavorando al buio. Ho presente una persona che faceva il direttore marketing, si è trovato in braghe di tela, non sapeva più come venirne fuori, non trovava più nessuna opportunità; alla fine ha seguito un corso di fundraising, ha trovato chi ha riconosciuto le sue capacità e l’ha preso con sé a lavorare; in breve ha cambiato completamente modalità di approccio: è diventato un formatore, un consulente formatore. Non è che guadagnasse l’ira di Dio, però ha trovato una sua dimensione soddisfacente.
Dicevi che le storie di successo sono rare. E agli altri cosa succede?
Gli altri si barcamenano, tra un impiego temporaneo, un lavoro a tempo determinato, qualche lavoretto, periodi di lavoro autonomo, periodi di assenza totale di lavoro, disperazione...
D’altra parte nessuno può mettersi al tuo posto. Noi cerchiamo di far capire alle persone che la ricerca del lavoro non può essere affidata a nessuno: se ne deve far carico l’interessato, attraverso tutti gli strumenti che ha e che può acquisire.
Per dire, il curriculum lo devi fare in un certo modo, non può essere un documento standard, va riformulato in base al posto a cui ti rivolgi; poi bisogna imparare a usare bene LinkedIn, curare le relazioni, il cosiddetto network; sono tutti strumenti che ti aiutano a trovare lavoro, ma non è che te lo trovano loro. Comunque l’importante è non rinchiudersi, non farsi prendere dalla nostalgia del passato, ma guardare avanti…
Com’è il rapporto con le istituzioni?
Direi che… è casuale. Casuale, tendente all’impossibile. Per esempio persiste tutta una serie di procedure e burocrazie che non ci consentono di fare al meglio il nostro lavoro. Noi, per esempio, le nostre esperienze le vorremmo mettere a disposizione, soltanto che oggi come oggi le istituzioni non hanno ancora imparato a lavorare col terzo settore. Lo puoi fare a livello comunale perché magari conosci i funzionari personalmente e allora puoi andare e dire: “Ragazzi, vorremmo fare un corso per le badanti, mi aiutate, mi date una mano?”. E loro te la danno. Sviluppare un rapporto organico con le istituzioni però è un’altra cosa ed è molto, molto difficile. Non ti prendono in considerazione. Io ci ho provato più di una volta...
Ci sono delle difficoltà strutturali, ma c’è anche l’indolenza del pubblico. Il pubblico tende a fermarsi all’aspetto molto formale, al soddisfacimento dei requisiti formali, non va a vedere la sostanza di quello che fai, e questo è molto grave. D’altra parte non hanno la struttura per poter verificare i risultati da punto di vista sostanziale. C’è sempre un approccio molto burocratico dove l’attenzione è tutta concentrata sulla rendicontazione amministrativa, più che sui contenuti…
Anche in occasione di due progetti fatti con il Ministero del lavoro, i funzionari che sono venuti qua si sono limitati a controllare i conti, hanno guardato solamente quello. Nessuno che vada a leggere i progetti. Questo è uno dei grossi problemi dell’amministrazione pubblica.
Molti lamentano una parcellizzazione estrema dei servizi in questo campo, mentre per costruire una rete di supporto e di sostegno alle persone servirebbe una forte integrazione.
La mia aspirazione è sempre stata quella di creare una rete capace di accogliere, sostenere e offrire delle opportunità. Purtroppo gli ostacoli sono tanti e anche gli stereotipi. Il pubblico oggi come oggi viene interpretato esclusivamente come mero elemento burocratico; il lavoratore maturo è un elemento da scartare; l’impresa è ipocrita, pensa solo a sfruttare... Bene, per fare rete davvero bisogna andare oltre questi automatismi.
Cosa fa in concreto la vostra associazione?
Facciamo tante cose. Innanzitutto c’è uno sportello dove incontriamo queste persone, cercando di capire quali sono le loro esigenze e di tracciare un percorso che va ovviamente costruito insieme a loro. Questa azione si traduce poi anche in un rapporto personale, in cui si aiuta la persona, la si accompagna, dandole dei consigli, anche su come comportarsi nell’approccio al lavoro.
Offriamo informazioni anche di tipo amministrativo oppure legislativo; sono aiuti che riusciamo a fornire grazie a dei professionisti; abbiamo un pacchetto di consulenti, che all’occorrenza vengono coinvolti. Questo è un primo aspetto.
Un secondo aspetto è quello della lotta alla discriminazione per età, e quindi la collaborazione con tutti gli enti deputati ad arginare questo fenomeno abbastanza pesante.
Un terzo aspetto è quello della collaborazione con le istituzioni; qui l’obiettivo è aumentare la sensibilità dei vari soggetti pubblici verso i lavoratori in età matura. Non è la prima volta che suggeriamo degli adeguamenti legislativi che, per ora, sono fermi al livello progettuale, comunque qualcosa si muove e qualche consigliere regionale, in Lazio come in Lombardia, ha chiesto il nostro aiuto per perfezionare alcuni punti.
C’è infine il livello europeo dove facciamo parte di un’organizzazione ombrello, che colloquia con la Commissione europea, portando avanti progetti di inclusione.
Queste sono, per sommi capi, le aree in cui siamo impegnati.
Per quanto riguarda l’aiuto alle persone, come accennavo, organizziamo anche degli incontri mensili tematici, dalla redazione di un curriculum alla conoscenza e all’uso dei vari portali di opportunità di lavoro. Raccogliamo e diffondiamo anche le informazioni sulle leggi o le normative a favore dell’assunzione degli over 40.
Capita che ci vengano chieste direttamente delle opportunità lavorative. In questo caso facciamo circolare l’informazione ed eventualmente proponiamo la candidatura alle aziende che si dichiarano interessate, così come facciamo circolare le richieste dei soggetti produttivi.
La cosa che mi meraviglia è che quando si presenta una possibilità non è che arrivino centinaia di risposte. L’altro giorno, ho mandato una proposta di lavoro per una contabile, mi hanno risposto in tre: uno che è quasi contabile, un commerciale, un grafico e un agente di commercio.
Non so come interpretare queste dinamiche. Il fatto che un grafico si proponga come contabile segnala forse la disperazione: se trovi tutte le porte chiuse, appena c’è uno spiraglio cerchi comunque di entrare da qualche parte.
Eppure è difficile credere che ci sia un solo contabile tra i vostri associati. Come si spiega questa mancata risposta?
Infatti è un qualcosa che nemmeno io riesco a capire. Cerchi un lavoro, ti offro un’opportunità. Perché non la cogli?
È paura, rassegnazione, disorientamento? Non lo so. In parte torniamo al discorso del posto fisso: “Mi assumi a tempo indeterminato?”, “No”, “Allora niente”.
Questo per esempio era un contratto a termine. Per il resto, mi trovo a dover confessare che, pur essendo ormai vent’anni che sono in questo campo, alcune dinamiche del comportamento delle persone non riesco a capirle.
Noi non abbiamo la forza di mettere assieme domanda e offerta. Servirebbe ben altra struttura perché poi le professionalità sono tante, c’è il contabile, il marketing, il grafico, l’informatico... per sviluppare un’attività di scouting in grado di proporre delle opportunità lavorative dovremmo operare ad amplissimo raggio. Non è questo il nostro lavoro.
Certo il matching tra domanda e offerta rimane una grande sfida. Una decina d’anni fa si era cimentata anche la regione Lombardia registrando dei fallimenti spaventosi. Porto un altro esempio banale: per il decimo anno consecutivo sto organizzando il corso per assistenti familiari. In passato sono sempre riuscito a intercettare un numero adeguato di persone interessate; quest’anno lo sto facendo a Monza, è totalmente gratuito, sono 160 ore, alla fine si ottiene una certificazione della regione Lombardia, ebbene faccio fatica a trovare persone. Le devo pregare! Eppure c’è la necessità di assistenti familiari e c’è tanta gente che cerca lavoro...
Come me lo spiego? Non lo so, non te lo so dire.
(a cura di Barbara Bertoncin e Sergio Bevilacqua)