Graziano Giachi, maestro elementare, ha lavorato per molti anni a Firenze presso Scuola-Città Pestalozzi, dove ha alternato l’insegnamento di lingua italiana, matematica, educazione affettiva e laboratorio di falegnameria.

La parola “resilienza”, cioè la capacità di adattarsi ai cambiamenti del mondo, viene presentata solitamente come una qualità positiva. Cosa pensi invece della capacità di non adattarsi, di resistere, di contrapporsi, di cui si parla molto meno?
Direi che c’è un’ambiguità nelle parole. C’è una cosa che va detta subito: se uno parla di adattamento alla realtà, ha in mente una sorta di percorso che debba tener conto della realtà, di qualcosa che è al di fuori di lui e che poi lui deve assumere come struttura sia esteriore sia interiore. Nella scuola parlerei più di una presa di realtà, di una acquisizione degli elementi costitutivi del contesto reale, che sia i bambini sia gli altri componenti del sistema scuola hanno bisogno di considerare, e di cui comunque fanno parte. Ma “adattamento” è una parola che non mi piace molto, perciò se qualcuno insistesse e mi parlasse spesso di adattamento alla realtà direi: “Meglio la resistenza”, e quindi meglio l’insofferenza. Poi è ovvio che nessuno può vivere fuori dalla realtà, tantomeno i bambini, tenendo comunque conto che uno dei principi che stanno a monte di tutto è quello per cui tutta la nostra vita è, tra molte virgolette, un processo di conformità alla realtà.
Partirei allora da uno degli elementi fondamentali che secondo me costituiscono il mondo della scuola, un processo in continua evoluzione che ha come centro la relazione. Per un bambino l’adattamento alla realtà è anche accettare la presenza di un adulto che finora non ha mai visto, non ha scelto, che ha le sue caratteristiche, il suo tono di voce, il suo aspetto fisico; quindi per lui è una delle prime realtà extrafamiliari con cui si trova a misurarsi e a interagire. Questo posso considerarlo un elemento fondamentale e molto reale, così come è molto reale l’ambiente fisico in cui si trova a passare tutte quelle ore del giorno, così come è molto reale la presenza di altri esseri simili a lui concentrati in uno spazio ridotto. Quindi, certo, c’è un adattamento, c’è una presa d’atto che per un bambino che entra a scuola la prima volta, anche quella materna, è una realtà nuova, per cui almeno all’inizio ha bisogno di misurarsi con questa realtà, di prenderne le coordinate per non sentirsi da una parte escluso, dall’altra forzato a fare e per non sentirsi costantemente sotto esame. Perché un altro elemento che c’è nella scuola, soprattutto per i bambini, fortunatamente più quelli grandi che quelli piccoli, è che molto spesso si sentono sempre sotto l’occhio di qualcuno. Allora, per ritornare al punto: cambierei l’espressione “adattamento alla realtà”; direi che “resilienza”, così come genericamente la si intende, o almeno come io penso che sia più appropriato intenderla, è “far tesoro delle esperienze che una persona attraversa e trarne l’insegnamento per la prossima volta”, cioè “far tesoro per andare avanti”, non attraversarle come se si fosse elementi neutri; le esperienze lasciano qualcosa e questo qualcosa va considerato. Quindi la resilienza da questo punto di vista va bene: attraversare le difficoltà che molto spesso ci sono; ma per me resilienza è anche far tesoro dei momenti felici, dei momenti di appagamento. E poi resistere, certo, ma i bambini lo fanno da sé; il punto è che la forma della loro resistenza non è sempre clamorosa, combattiva; a volte la loro resistenza è passiva, muta, cupa, induce alla marginalizzazione. Qualunque comportamento che l’insegnante vede come “non conforme” all’ambiente e alla situazione e che gli sembra strano è comunque una forma di resistenza. Io la riterrei legittima in quanto la considero quel tempo di cui l’alunno ha bisogno per rimanere presente nel processo formativo che è “la scuola”.
La legge “Buona scuola”, del 2015, ha introdotto in Italia i percorsi di alternanza scuola-lavoro. Qualcuno ritiene che questi percorsi siano formativi, utili ad avvicinare i ragazzi al mondo del lavoro; altri invece sostengono che dietro gli stage, come vengono chiamati, ci sia l’intento di procurarsi manovalanza gratuita e che sarebbe meglio dedicare il tempo della scuola allo studio. Tu cosa ne pensi?
Due premesse. Conosco molto poco la scuola superiore, quindi mi baso su informazioni di seconda mano. L’altra premessa è che ho fatto per molti ...[continua]

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