Michael Giffoni, dopo aver trascorso gli anni Novanta in Bosnia e nel resto dell’ex-Jugoslavia in guerra, è stato Capo della Task-force per i Balcani dell’Alto Rappresentante per la Politica estera Ue, Javier Solana, e poi per cinque anni primo Ambasciatore d’Italia in Kosovo (2008-2013).

Hai una lunga esperienza di lavoro nei Balcani, in particolare in Kosovo, puoi raccontarci?
Sono entrato nella carriera diplomatica dopo il crollo del muro di Berlino: gli anni dal ’90 al ’92 sono stati il mio apprendistato diplomatico. Erano anni pieni di speranza. Le guerre jugoslave sono state un brusco ritorno alla realtà, la fine di quell’entusiasmo che ci aveva contagiato in tanti quando, dopo il crollo del Muro, pensavamo che “fosse finita la storia”, come scriveva Fukuyama. Invece con la disintegrazione della Jugoslavia tutti capirono che erano finite le ideologie, ma non la storia. Nei Balcani, nella ex-Jugoslavia, ci fu sostanzialmente un uso strumentale del nazionalismo per la conservazione del potere. Pensate al mito nazionalista di Milosevic, a questo bisogno di rivincita da parte dei serbi trattati male per secoli, dallo stesso Tito d’altronde.
Nel 1986 era uscito il Memorandum dell’Accademia delle scienze della Serbia, una sorta di manifesto nazionalista fortemente critico della struttura di potere jugoslava basata sulla divisione del paese in repubbliche e province autonome, tutte con gli stessi poteri. All’inizio Milosevic attaccò fortemente il Memorandum, perché lui si muoveva ancora nell’ottica socialista e iugoslava, ma all’indomani dei primi incidenti in Kosovo in cui erano stati maltrattati dei dimostranti serbi, se ne appropriò, come dello stesso sentimento nazional-revanscista serbo. La frase da lui pronunciata nel famoso discorso del 24 aprile 1987 “nessuno deve più permettersi di picchiarvi” è poi diventata lo slogan della protesta nazionalista. Quello è stato un po’ l’inizio di tutto, della violenta disintegrazione della Jugoslavia, delle guerre e dell’orrore che l’hanno accompagnata.
Alexander Langer aveva capito molto bene che il nazionalismo all’inizio non aveva conquistato lo spirito dei serbi e che non era prevalente nella popolazione, soprattutto tra i giovani.
Di tutti i politici e anche osservatori internazionali e diplomatici che ho incontrato in quegli anni, Alexander mi sembrava l’unico che avesse compreso che era in corso una pericolosa strumentalizzazione sia da parte di Milosevic che da parte di Tudjiman. In seguito, parzialmente, ciò è avvenuto anche da parte dei bosniaci musulmani, ma come rivalsa, e in certa misura pure in Kosovo.
Dicevi però che la situazione del Kosovo ha avuto un’evoluzione molto differente.
Sì, in Kosovo, almeno all’inizio, c’è stato questo esperimento di convivenza o meglio di resistenza non-violenta o lotta pacifica portata avanti da Ibrahim Rugova e dall’Ldk, la Lega democratica del Kosovo, il partito della maggioranza della popolazione, la componente albanese, almeno fino al 96-97, quindi anche nel periodo della guerra in Bosnia.
Per capire il carattere di questa rivolta pacifica albanese bisogna tornare al 1974, quando sotto Tito, in seguito a una modifica della Costituzione Federale jugoslava, il Kosovo acquisisce lo status di provincia autonoma. Non una repubblica, ma quasi: c’è il bilinguismo nel sistema scolastico e nelle strutture pubbliche e le quote per i funzionari pubblici. Essendo gli albanesi predominanti sotto il profilo demografico, il 90% circa degli insegnanti, dei medici, degli infermieri e di tutti i dipendenti pubblici sono albanesi. E l’insegnamento è in tutte e due le lingue, serbo e albanese.
Nel 1989, dopo la sua svolta nazionalista, e anche approfittando del revanscismo dei serbi kosovari che si sentivano a loro volta discriminati, Milosevic sopprime l’autonomia, cambia il sistema delle quote e gran parte dei dipendenti pubblici albanesi vengono licenziati e sostituiti da serbi, che arrivano in maggioranza da altre regioni (molti tra l’altro sono profughi della enclave della Krajina in Croazia e si insediano nel Kosovo del Nord), perché in Kosovo i serbi erano pochi, rappresentavano al massimo il 10-12% della popolazione. Il serbo ritorna a essere l’unica lingua d’insegnamento nelle scuole e università. Per poter insegnare l’albanese viene quindi messo in piedi un sistema clandestino e parallelo (con una rete di scuole nei sotterranei e nei cortili dei palazzi); lo stesso accade nella sanità. Il regime serbo sa ...[continua]

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