Jean-Marc Manach è un giornalista specializzato in questioni di vita privata e libertà digitali. Fa parte dell’equipe di Owni.fr, di Big Brother Award Francia, e ha un blog su lemonde.fr. Ha pubblicato, tra l’altro, La vie privée, un problème de vieux cons? (La vita privata, un problema per "vecchi idioti”?).

Lei accomuna i cambiamenti che Internet sta portando nella vita privata alla rivoluzione sessuale degli anni Settanta...
Parto da una prima precisazione. Spesso, quando si parla di vita privata, soprattutto su Internet, bisognerebbe più opportunamente parlare di "vita pubblica”. Mi spiego: quando una persona si esprime su un social network, Facebook, Twitter o altrove -in media gli utilizzatori di Facebook hanno centocinquanta amici- condividendo un pensiero, un’espressione, una foto o un video, non si è più nel campo della "vita privata”. Io infatti preferisco parlare di "vita sociale” o, addirittura, "vita pubblica”, perché quando si cominciano ad avere duecento, trecento, cinquecento "amici” su Facebook (sapendo che non sono dei veri amici: ci sono colleghi, famigliari, ex compagni di scuola...) bisognerebbe pensarla come, appunto, una vita pubblica.
Per venire alla domanda: la rivoluzione sessuale ha avuto un’incidenza diretta nella vita privata delle persone perché ha permesso relazioni amorose e rapporti sessuali più liberi, ma ha avuto, soprattutto, un impatto colossale sulla vita pubblica. Per esempio, fino alla rivoluzione sessuale, una donna in minigonna che veniva stuprata, al momento del processo poteva essere accusata di essere la causa dello stupro. Sono state necessarie le lotte femministe per arrivare a considerare colpevole lo stupratore. C’è voluto, cioè, un cambiamento culturale. In questo io vedo un parallelo con Internet, nel senso che anche la Rete sconvolge i codici della privacy perché "libera” ed espone molti aspetti della vita privata e questo ha un’incidenza sulla vita pubblica.
Questo, secondo lei, ha delle implicazioni politiche...
Guardiamo alle polemiche sorte intorno alle questioni di vita privata su Internet. Quello che colpisce è che a puntare il dito sul problema della privacy in Internet siano i soggetti maggiormente interessati a "regolare” la Rete. Mi riferisco in particolare a certi politici. Ora, la nozione di "regolamento di Internet” di solito è chiamata in causa per scoraggiare le persone a esprimesi, a condividere video e informazioni. Io invece credo che, al contrario, abbiamo tutto l’interesse ad andare su Internet e a condurvi una "vita pubblica” perché questo contribuisce alla costituzione di un’identità digitale e di un "soggetto sociale” che in qualche modo partecipa alla vita della polis.
Detto altrimenati: se oggi considerassimo quello che succede su Internet come se fosse solo una questione di vita privata, la sola soluzione sarebbe quella di mettersi un burqa digitale. Sarebbe una totale aberrazione perché in una democrazia è inaccettabile che l’unico modo per proteggere le libertà dei cittadini sia nascondersi. Non a caso, tra le femministe negli anni Settanta ce n’erano alcune che portavano in piazza i reggiseni per rivendicare la libertà di metterlo o meno. La questione della visibilità è importante.
La tutela dei dati personali in Internet è però un problema reale...
Certo, quello che ho detto non significa che non ci siano problemi legati alla privacy in Internet. Per questo io faccio una netta distinzione tra "esprimersi su Internet” e "muoversi su Internet”. Mi spiego: quando si scrive un commento su Facebook o un post in un blog per me siamo nell’ambito della vita pubblica (perché si sta condividendo qualcosa); quando però si visita un sito o si digita un parola su un motore di ricerca si tratta, invece, di vita privata.
Effettivamente, Google, come altri motori di ricerca, conserva questi dati, conosce la cronologia dei siti che visitiamo, così come gli Internet provider; anche Facebook vede con chi ci scambiamo dei messaggi privati. Tutto questo -lo ripeto- rientra nel campo della vita privata.
Qui si pongono due problemi: il primo è a livello commerciale. Le regie pubblicitarie usano questi dati per creare pubblicità "comportamentali”, mirate cioè a influenzare le scelte dei consumatori, e molte persone temono quest’intrusione nella propria vita privata.
Io faccio parte di un collettivo "Big Brother Award”, presente in una decina di Paesi: ogni anno conferiamo un premio a chi si distingue in materia di violazio ...[continua]

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