Eyad El Sarraj, psichiatra, è nato a Beer Sheva nel 1944. Nel 1948, lui e la sua famiglia sono stati costretti ad andarsene e si sono trasferiti a Gaza. Ha studiato in Egitto e si è laureato a Londra. Da sempre impegnato per la tutela dei diritti umani, è il fondatore e presidente del Gaza Community Mental Health Programme. Nel 1996 è stato incarcerato per aver denunciato e condannato la tortura e le violazioni ai diritti umani commessi dall’Autorità Palestinese. Oggi vive a Gaza.

Come avete vissuto le scorse settimane? Il vostro centro di salute mentale è stato colpito fin dai primi giorni…
Israele ha ingaggiato questa guerra tremenda contro i palestinesi di Gaza, in cui ha messo in atto una forza brutale via terra, via mare, via aria… L’intera popolazione di Gaza, un milione e mezzo di persone, si è trovata vulnerabile e indifesa. Israele inoltre ha devastato la città, molti quartieri sono completamente distrutti. Per non parlare dei 1300 morti e dei più di 5000 feriti, l’85% dei quali non sono combattenti, e un terzo sono bambini.
Noi abbiamo vissuto in uno stato di totale emergenza. Alla guerra bisogna infatti sommare due anni di assedio e blocco economico che hanno privato la popolazione di Gaza anche dei beni di prima necessità, inclusi medicinali e apparecchiature mediche, a cui Israele ha impedito di entrare per due anni.
Questo per dire che quando è iniziata la guerra i nostri ospedali erano già in difficoltà e assolutamente impreparati ad affrontare la situazione. E’ stato solo grazie agli aiuti e ai medici arrivati dall’Europa, in particolare da Francia e Gran Bretagna, e poi da Egitto e Giordania, che la situazione non è stata ancora più catastrofica. E tuttavia le condizioni restano terribili.
Se qualcuno vedesse Gaza oggi senza sapere cos’è successo penserebbe a un terremoto tremendo. Israele ha veramente distrutto tutto. Tra l’altro molti di noi per giorni sono rimasti chiusi nei rifugi, per la paura e per proteggersi dagli attacchi, e puoi immaginare cosa significa uscire e vedere la devastazione, ascoltare le storie delle persone che hanno perso dei cari, dei bambini che hanno perduto la famiglia. E’ molto doloroso.
Nel frattempo il nostro centro ha ripreso a funzionare. Israele ha bombardato una nostra sede. Non è stata colpita direttamente, l’obiettivo era un altro, ma è stata pesantemente danneggiata, i vetri sono tutti saltati e poi l’edificio ha bisogno di essere riparato, ci vorrà del tempo. Ora stiamo lavorando in un altro centro, a Gaza City, dove accogliamo i pazienti, ma soprattutto cerchiamo di formare delle persone in grado di ascoltare le vittime e dare un po’ di conforto, aiutandole a dar voce a quello che sentono, ad iniziare ad affrontare i traumi, in particolare quelli dei bambini, prima che si sviluppi la sindrome da stress post-traumatico (Ptsd). Purtroppo è un’impresa tutt’altro che semplice, ma noi stiamo facendo l’impossibile perché è una questione cruciale, vitale direi, per il futuro di questa popolazione.
Come si svolge la vostra attività?
Visitiamo gli ospedali e soprattutto, come dicevo, addestriamo i giovani volontari laureati in psicologia, le infermiere, gli operatori socio-assistenziali, in modo che possano operare nell’ambito della comunità, ascoltando le vittime, perché il nostro staff è limitato, non possiamo andare dappertutto. Per cui queste persone vanno in vari luoghi della città e ascoltano le vittime e cercano di sostenerle, accoglierle, guidarle…
Tu sei particolarmente preoccupato per i bambini…
E’ una situazione molto complessa e delicata, non solo quella dei bambini, ma anche quella dei genitori che spesso non sanno che fare, come comportarsi coi loro figli. Nella maggioranza delle famiglie, il padre, già nei due anni trascorsi, aveva smesso di rappresentare la figura di colui che mantiene la famiglia. Ora ha perso anche il ruolo di protettore della famiglia, soprattutto della sua parte più debole, donne e bambini. In più i padri sono a loro volta comprensibilmente spaventati e impotenti. Questo è un nodo importante perché i bambini hanno un estremo bisogno di essere rassicurati, di sentirsi al riparo, cosa che al momento è obiettivamente impossibile, perché non c’è un luogo sicuro a Gaza. E i bambini questo lo avvertono. Questa è una situazione molto pesante per loro. Infatti già adesso molti bambini stanno in qualche modo buttando fuori questo vissuto traumatico, molti sono ossessionati dai cadaveri, dal sangue, ...[continua]

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