Com’è nato questo libro?
All’inizio il Comune mi aveva proposto di fare una ricerca sul paese di Solto partendo dalla preistoria; allora ho cominciato a raccogliere dei documenti, ma mi sono resa conto ben presto che il materiale era pochissimo (a parte un diploma di Carlo Magno che lo nominava) per cui ne sarebbe uscita una storia molto misera. Questo perché dal Medioevo alla fine della seconda guerra mondiale il paese era rimasto sostanzialmente immobile nel suo isolamento e nella sua povertà; nel dopoguerra invece c’è stato il boom, la gente ha cominciato a emigrare ed è diventata più ricca, le abitudini si sono modificate. La mia generazione dunque è stata l’ultima a conservare memoria dei costumi e della mentalità precedente, perché ormai a Solto non ci sono più né campi né mucche, né stalle né viti; è diventato un paese di piccolissimo turismo o di buon benessere che ha dimenticato l’originaria vocazione agricola. Allora mi sono detta: perché non raccontare la storia di questo paese scomparso di cui le memorie sono proprio sulla soglia di casa e, una volta chiusa la porta, nessuno più le conoscerà? Il Comune di Solto è stato d’accordo, così ho iniziato a scrivere questo libro, che è partito come una cosa del tutto privata tra me e gli abitanti del paese, ma poi è diventato un libro di storia generale che poteva interessare un pubblico più vasto. L’Italia agricola e povera infatti era veramente uguale dappertutto, i contadini stretti dall’indigenza vivevano e si muovevano ovunque nello stesso modo, e lo testimoniano le moltissime lettere che ho ricevuto da paesi del Centro e del Sud Italia da parte di persone che si riconoscevano in quella memoria.
Qual è il tuo legame con Solto?
Lì c’è la casa dei miei nonni, che erano dei proprietari, anche se di campi che valevano poco o niente, e lì ho vissuto per dei periodi, soprattutto con una famiglia di contadini dei miei nonni, i Giussani, dove il padre era una persona di una rara intelligenza e c’erano tantissimi figli più o meno della mia età; siccome io allora ero molto gracile e le vacanze estive duravano più a lungo, da maggio a ottobre stavo a Solto. In quel luogo ho imparato molte cose, per esempio a fare i formaggi, a mungere, ho conosciuto la vita dura dei contadini. In un certo senso sono cresciuta con gli occhi “strabici”: da una parte c’era mia nonna, con le sue ragioni di proprietaria; dall’altra vedevo invece cos’era realmente la vita di queste persone poverissime, di questi miei compagni, che avevano ben poco da giocare, anche se per me il lavoro stesso in campagna era un gioco. Naturalmente d’estate erano tutti a piedi nudi e ricordo che si divertivano a farmi vedere che se mettevano un chiodo dentro il tallone non si facevano male, perché la loro pelle era diventata come un ferro di cavallo. D’inverno invece mettevano gli zoccoli di legno. Inoltre, siccome io sono del ‘40, fra il ‘44 e il ‘45 siamo stati a Solto un anno intero perché le scuole erano chiuse a causa della guerra e mio padre, che allora era insegnante di liceo, non poteva lavorare.
Sempre in quell’anno io fui iscritta alla prima elementare; nella mia famiglia c’era l’idea che bisognava anticipare i tempi in tutto. Così a quattro anni mi spedirono a scuola. Per me fu uno shock terribile: tutte le classi insieme, la prima con la quinta (ripeto, c’era la guerra) con una confusione indescrivibile, le maestre che stendevano i pannolini in classe, così si asciugavano al calore della stufa...
Anche mio padre era legatissimo a Solto perché aveva conosciuto lì mia madre, e crescendo era diventato molto amico della sua famiglia, soprattutto del fratello di cui era stato compagno di scuola; sono veramente cresciuti insieme. Lui era molto inventivo e così, l’anno che siamo stati tutti a Solto, non dovendo lavorare, aveva recuperato le formule per fare il solfato di rame e lo faceva per tutta la collina. Anche lui era sempre vissuto in campagna, perciò era molto integrato nella vita del paese: sapeva stimare un bosco in piedi, ovvero sapeva dire quanti quintali di legna avreb ...[continua]
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