L’altra notte, per due tre volte ho tentato di picchiare mia moglie, di buttarla da parte con violenza, gridando che mi lasciasse andare, che non mi tenesse inchiodato in un letto che era diventato un supplizio. E lei a dirmi con pazienza con fermezza con dolcezza: "Ma, Lamberto, sono le 2, sono le 3, sono le 4 di notte; sei nel letto di una clinica ed hai una fleboclisi al braccio sinistro e ogni movimento può essere pericoloso. Perché fai così?”. Perché facevo così? Che cosa poteva costringermi ad usare anche un pur esausto gesto di violenza nei confronti della donna che di più amo al mondo e di cui mi sento in tanto debitore? Ho una madre che Dio mi ha dato e per la quale provo affetto profondissimo e riconoscenza infinita; ho dei figli che sono il regalo più bello fattomi dall’universale paternità di Dio e che rappresentano il sospiro verde anche delle ore più bruciate e più desolate. Ma ho una moglie che io e non altri -certo, con l’aiuto di Dio- mi sono scelto e ho voluto per sempre. Eppure, questa donna io ero disposto a trattare con violenza, in nome della non-ragione, secondo la logica di ciò che contraddice al bene, cioè il male. L’assurdità del male: e parlo proprio del male fisico, tangibile, non di quello altrettanto vero, ma misterioso, della coscienza. Io ritengo che il male fisico sia così assurdo perché distorce e travolge la volontà dell’uomo sino a fare di questo uomo un oggetto capace di rispondere solo ai colpi di questi istinti esasperati. Cristo soffre nell’orto e, sudando sangue, invoca il padre: "Padre, se è possibile, allontana da me questo calice”. Cristo soffre sulla croce e, poco prima di esalare l’ultimo respiro, gemita e urla e grida il suo ultimo appello: "Padre mio, Padre mio, perché mi hai abbandonato?”.

Come deve essere assurdo un male che induce un Dio a rinnegare la sua stessa divinità, induce un figlio -e qual figlio!- a sentirsi abbandonato dal padre, e da qual padre! Ma se allora anche per Cristo Gesù il patire la sofferenza fisica fu un vero patire, come non potrebbe e non dovrebbe esserlo anche per noi, che ne siamo fratelli, totalmente coinvolti nell’unico disegno di Dio? Ecco dunque che la prima risposta sull’assurdità del male c’è: esso non è assurdo perché ci accomuna al Signore, e fa intravvedere -non capire, purtroppo, fino in fondo- un progetto misterioso in cui la sofferenza ha un suo posto privilegiato. Ma questo può non bastare, se non si ha una fede capace di muovere le montagne. Allora soccorre una seconda spiegazione che si rifa all’imperfezione di una creatura pur così perfetta quale è l’uomo. Accettare il dolore e la morte con la serenità di Socrate e di Seneca e con l’oscuro eroismo solidale di tanti martiri della libertà e della giustizia: il dolore solitario è un dolore assurdo. Se lo strazio della tua carne non riesce a precipitarti in una forma di egoismo viscerale in cui ciò che conta è soltanto lo stare un po’ meglio; se i colpi sordi e lancinanti della malattia non ti fanno dimenticare che intorno la vita continua e che comunque la logica vincente sarà quella del vivere, allora questo tuo male coinvolto nella fitta trama dei gesti che costituiscono la storia dell’uomo, non è più assurdo, ma diventa una componente, seppure amara e straziante, della vicenda esistenziale. Viviamo in una società in cui star bene di salute è d’obbligo, perché questa salute ci è garantita dalla televisione, dai cartelloni pubblicitari, dagli articoli di giornale che ci assicurano come, quando e perché, facendo uso di quei certi prodotti o di quelle certe vitamine o di quei certi medicamenti, noi saremo sempre in forma perfetta, smagliante; da atleta vincitore alle olimpiadi. Quando poi capiti che la salute venga meno, che la malattia prenda il sopravvento, allora c’è da parte non solo del malato, ma anche degli altri che gli vivono a fianco, quasi come un gesto di rifiuto istintivo, di allontanamento, di inaccettabilità del dato; se ti ammali vieni meno alle regole del gioco, poni in essere una situazione che va contro una società, la quale preferisce porsi come interrogativo: "Dove sta Zazà?” piuttosto che: "Dove sta il bene, dove sta il male?”, Insomma, io mi vergogno abbastanza di essere ammalato da tanti mesi, non perché la mia malattia abbia niente di infamante, ma perché costringe gli altri, persone che mi vogliono bene e alle quali voglio bene, a prenderne atto  e a sentirsi, in certo modo, coinvolte al punto che o se ne interessano vivamente -e ...[continua]

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