Ti svegli e non sai che giorno è.
Hai perso la cognizione dello scorrere del tempo. Come i bambini quando ti chiedono se domani c’è scuola, anche io non so oggi, che apro gli occhi sempre un po’ prima della sveglia, cosa dovrò fare. Accompagnare i bambini a scuola, in piscina perché è sabato, al campo per la partita di domenica? Il lavoro aiuta a scandire il tempo. Il tempo senza lavoro è un tempo indistinto, uguale, anche un po’ eterno, come testimoniano i lavoratori di Agile ex Eutelia. Da qualche giorno a Milano c’è il sole. Dopo un inverno piovoso e grigio. Mi dico, alzandomi, che devo fare un’azione. Scrivere ciò che da tempo penso e che non riesco a dire. Sfuggo gli altri, per sottrarmi al solito "Come va?” cui non saprei come rispondere, in modo telegrafico.

Già, come va?
"A che ora si è alzato stamattina?” Domanda il giornalista per rompere il ghiaccio in apertura di  intervista al premier Renzi. Sento un brivido e un po’ di imbarazzo. Alzarsi presto la mattina, anche molto presto, è sempre stata normale quotidianità, nulla di eccezionale. C’era un treno da prendere, un viaggio da fare. Per cercare di tornare a casa la sera e mettere a letto i bambini e stare un po’ con la mia compagna preferivo fare anche 600 km in un giorno. Oppure c’erano le mail da mandare, o una relazione da iniziare (i pensieri del mattino…) o una giornata di formazione da sistemare. Nulla di eroico. Lavoro. Era lavoro. Perché il lavoro forse è così. Un po’ ginnastica, un po’ droga. Quando ne hai, sai cosa fare o ti ingegni per farlo, sei allenato, ne hai bisogno, ti tiene su. Certo preoccupa, ti domandi se sarai all’altezza, utile, se imparerai qualche cosa. Devi stare attento a non confondere il valore che hai di te, la tua autostima con l’idea di valore che ti rimandano gli altri. Ma in una condizione di lavoro si impara a gestire anche questo. Quando ne hai poco, o punto, ne senti la mancanza, fino alla crisi di astinenza, che ti fa perdere il contatto con il tuo corpo e con la realtà. Che giorno è oggi? Perdi capacità di organizzarti. Anche lo spazio della mattina resta vuoto. Nella confusione temporale i giorni passano più o meno uguali, indistinti.
Dovresti fare quella telefonata per promuovere un’iniziativa… o scrivere una sintesi dell’unico lavoro che hai in ballo e che ti tiene agganciato al mondo dei giusti come un elefante che si dondola appeso al filo di una ragnatela… Perfino il bollettino in posta, che non hai mai saltato, rimarrà sulla scrivania a guardarti ben oltre la scadenza. Sai che devi farlo. Ma hai perso la forza per svolgere il compito che prima era normale.
Come posso continuare a svolgere servizi di formazione e consulenza, ascoltare gli altri, coglierne punti critici da ricollocare e provare insieme a comprendere, trasformare, per rimettere in moto dinamiche organizzative più congruenti con la situazione reale, se io per primo sono schiacciato dalla realtà. Vorresti forse che gli altri capissero te. O che quantomeno sapessero di questa tua condizione, per evitare scissioni. Quando sono in situazione, con i clienti, uso la mia esperienza velandola dietro quella di altri, parenti, amici, conoscenti. E la uso con il contagocce, dosandola, per timore, per paura delle reazioni che potrebbe scatenare, per non scoprirmi troppo e proteggere quel poco di identità professionale che rimane. Un conoscente-collega mi ha parlato di attrezzatura vulnerabile -o qualcosa del genere- come condizione essenziale per uno psico-sociologo. Oggi mi sento solo vulnerabile e per nulla attrezzato. E come faccio a far intravedere a chi un lavoro ce l’ha, forse malpagato, non riconosciuto socialmente, ma importante e concreto, come quello che implica una relazione con gli altri, siano malati, anziani, studenti, carcerati, colleghi, altri servizi, che ha un patrimonio in mano che altri, che io non ho?

Legami deboli?
Con i colleghi e con i clienti con cui hai lavorato per anni le relazioni cambiano. Con chi continua, pur con maggiori fatiche, a riempire agende aumentano le distanze. I clienti forse neanche si immaginano che hai poco lavoro, nonostante provi a farglielo capire. Ci si sente sempre meno, poi più nulla. Reciprocamente. Forse con ragioni diverse. Le mie oscillano fra il timore di disturbare chi lavora, che lavorando poco non ho più argomenti da scambiare, esperienze da condividere, che la telefonata venga presa come una rivendicazione. Le loro, non lo so. Ecco, forse questo potrebbe essere l’argomento di una telefonata. Ma il legame professionale non è sufficiente per trasformarsi in un altro tipo di legame. Anni a valorizzare i legami deboli, a promuovere multiappartenenze organizzative, e ora mi domando se sia stata la strada giusta. Con chi, come me, ha agende con qualche mezza giornata qua e là, ogni tanto ci si sente. "È un’epidemia”, "ti capisco”, "scrivilo”, mi dicono colleghe-amiche. Qualcuno di noi comincia ad avere seri problemi di reddito. Là dove è a rischio o è già saltata l’altra gamba del reddito mensile familiare, o i risparmi si vanno esaurendo a furia di attingere. E anche chi continua a lavorare lamenta una sempre maggiore separazione fra agenda pur piena e remunerazione che rimane sufficiente "per il minimo di galleggiamento, e ciò mi fa paura, tanta”. Ecco, sì, stamattina provo a scrivere dell’indicibile sul lavoro, anzi sul non lavoro.
Ps. Scritto di qualche settimana fa, ho esitato molto -come sanno i colleghi della redazione dell’Indicibile sul lavoro e gli altri cui l’ho fatto girare- prima di decidermi a pubblicarlo. Un po’ di pudore, la paura di essere etichettato, il desiderio di non personalizzare. Ho ricevuto invece commenti generosi e spunti interessanti di riflessione. Per questo ho pensato che forse valeva la pena di farlo. Sperando che possa continuare il dibattito. Ci tengo a ringraziare Emmanuelle, "mia compagna di vita, d’amore, di strada e di crisi”, parafrasando le sue parole, secondo cui  non c’è solo il solito "come va?”, ma anche il "vi-dico-io-come-sto…”
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