Ho insegnato a Modena, come Marco Biagi, con Marco Biagi. Nessuno dei due avrebbe immaginato, dieci anni fa, che a distanza di qualche anno, ci saremmo ritrovati lui come consigliere di Tiziano Treu e di Antonio Bassolino, e io con compiti simili, a discutere di questo o quel provvedimento, e poi del piano nazionale per l’occupazione. Compiti difficili.
Marco era tra quei giuristi capaci di varcare i confini della norma per accettare, anche se temporaneamente, la logica spesso così distante, degli economisti. Lo faceva perché la sua curiosità intellettuale e allo stesso tempo l’amore per il suo lavoro di giurista gli consentivano di farlo, con semplicità, con la intima convinzione che valesse la pena, sempre e comunque, andare a cercare, andare a vedere cosa c’era dietro l’argomentazione dell’altro; con la certezza che le idee e le conquiste migliori si difendono solo permettendo loro di evolvere; con la credibilità di chi ritiene comunque di volere e potere contribuire alla costruzione di un’Italia moderna e più europea. Perché Marco era un intellettuale europeo, conoscitore profondo dei sistemi giuridici nazionali, ma convinto, altrettanto profondamente, che questi dovessero prima o poi misurarsi con i temi posti da un’unione sempre più stretta. In questi anni non sono state poche le norme e le proposte che Marco Biagi aveva, in misura diversa, ispirato. Come accade a molti riformisti, in alcune egli si riconosceva molto più che in altre. E in tutti i casi aveva raccolto con pacatezza i consensi e i dissensi. Ma al di là delle scelte di volta in volta compiute, credo Marco Biagi per primo avrebbe voluto che fossero discusse con nettezza e con franchezza. Marco era un riformista convinto e autentico, uno studioso sinceramente interessato a tradurre i propri saldissimi princìpi in strumenti concreti, nella speranza, così facendo, di aggiungere un tassello alla costruzione di un mondo migliore.
Come tutti i riformisti, Marco era un uomo determinato, ma mite; convinto della necessità, finché possibile, di evitare lo scontro, cercando soluzioni in grado di rendere mutualmente compatibili gli interessi di campo.
Diciassette anni fa io ho avuto il compito di commemorare in un’aula universitaria Ezio Tarantelli, a poche ore dal suo assassinio. Tre anni fa la stessa mano ha colpito Massimo D’Antona, con cui avevo speso ore intorno a uno schema di concertazione. E ora sono qui a parlare di Marco Biagi. Tre persone diverse, con sensibilità e opinioni diverse. Ma tutti e tre intellettuali riformisti con un identico tratto umano, una -se così posso chiamarla- "determinata mitezza”, che rendeva assolutamente particolare, per certi versi straordinario, il loro impegno civile. Una mitezza che rende ancora più inaccettabile il destino che li unisce e la striscia di sangue che attraverso di loro segna il destino di questo paese.
Martedì scorso poche ore prima del barbaro assassinio di Marco Biagi, in un convegno a Roma, avevo detto qualcosa che credo, al di là della diversità delle posizioni, Marco avrebbe condiviso, e che proprio per questo motivo vorrei ripetere qui. "Molti pensano che lo spazio del riformismo non sia mai stato ridotto come oggi; stretto fino a soffocare a volte; ignorato con ogni pretesto e spesso da ogni direzione. Eppure è proprio in questi momenti che del riformismo si sente il bisogno e si avverte la mancanza. Si avverte la mancanza dei suoi elementi costitutivi: l’analisi distaccata e serena della realtà, il riferimento inequivoco ai princìpi di sempre, la fantasia e la creatività nella ricerca di soluzioni sempre concrete. Ma non c’è da temere, il riformismo, come il grano, comincia a germogliare sotto la neve”. Anche quando, come oggi, quella neve è macchiata di sangue.

Marco Biagi è stato commemorato nell’ambito della Giornata di Studi sulla Globalizzazione, organizzata dai Ds Emilia Romagna, tenutasi a Bologna lo scorso  22 marzo.