Dopo un’estenuante fuga dalle vicende politiche e dai disordini legati al colpo di Stato da parte delle forze Séléka del 24 marzo scorso, mi trovo ora a Betou, un villaggio del Congo Brazaville alla frontiera con la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica centrafricana.
Alle mie spalle ho lasciato un paese devastato dall’aspro confronto politico-militare tra i sostenitori del vecchio regime di François Bozizé e l’alleanza dei Séléka, cominciato nel dicembre scorso e ancora oggi in corso.
Insieme a me sono arrivati molti cittadini centrafricani che per diverse ragioni cercano riparo nel vicino Congo Brazaville. Spesso si tratta di militari e autorità appartenenti al vecchio regime che cercano di sfuggire alle rappresaglie dei Séléka al potere. Ma, nella maggior parte dei casi, sono civili inermi in fuga da una crisi umanitaria pressoché ignorata da tutti.
Secondo molti attori della comunità internazionale, in particolare la Francia, il conflitto sarebbe un affare puramente interno allo scenario politico centrafricano. Per questa ragione, ad esempio, François Hollande, nel dicembre scorso, avrebbe rifiutato un intervento nel paese salvo che per proteggere i "cittadini e gli interessi francesi nel paese”.
Con uno sguardo più attento, però, la situazione è molto più complessa di un semplice problema interno. Lo dimostra, ad esempio, la presenza di "mercenari” ciadiani e sudanesi tra le forze ribelli, segnale che gli attori regionali coinvolti nel conflitto sono molti. In prima linea c’è sicuramente il Ciad di Idriss Déby, vecchio sostenitore dell’ex presidente centraficano Bozizé, ma che già da tempo aveva preso le distanze dal presidente destituito. Secondo alcuni osservatori, il conflitto centrafricano nella regione lascerebbe presagire la messa in atto di alleanze trasversali tra le forze ciadiane e sudanesi coinvolte nella presa di Bangui per destabilizzare gli equilibri altrettanto precari dei loro paesi (Darfour).
Un altro tipo di equilibrio, questo sì puramente centrafricano, è attualmente in serio pericolo. È quello della secolare e pacifica convivenza tra cristiani e musulmani nel paese. L’assimilazione dei combattenti Séléka a forze straniere di religione (prevalentemente) musulmana rimanda all’idea di un continente assediato da un islam più o meno radicale.
In qualunque maniera si voglia leggerlo, il conflitto mette a dura prova un paese che, seppur dotato di risorse naturali quali petrolio, diamanti e oro, resta estremamente povero. Un paese le cui prospettive di sviluppo sono soffocate da una violenza ciclica e da una situazione di emergenza perenne. E con una popolazione sempre più vittima di giochi di potere oscuri e a cui non resta altro che continuare a scappare.
Al momento, si stimano circa 100.000 rifugiati centrafricani in Cameroun e un migliaio di rifugiati nel villaggio di Betou dal quale vi scrivo. La comunità internazionale ha quasi interamente evacuato il proprio staff e resta in attesa di un quadro più chiaro all’interno del quale intervenire per porre rimedio a una crisi umanitaria che assume sempre di più la dimensione di una catastrofe.
Ma a poco più di una settimana dalla presa del potere da parte della Séléka, i tentativi di ristabilire l’ordine sembrano lontani. Alcuni nostri colleghi che si trovano ancora a Bangui ci raccontano di combattenti che si lasciano andare ad atti di saccheggio che hanno come bersaglio abitazioni private e sedi di organizzazioni umanitarie. E questo nel silenzio assenso del potere attualmente in carica. A sud-ovest del paese, vi sono ancora violenti scontri tra le forze Séléka e gli ultimi militari resistenti legati al regime di François Bozizé, i quali si starebbero rendendo responsabili di gravi violazioni del diritto umanitario impedendo l’attraversamento della frontiera ai tanti civili in fuga. Sono gli ultimi abusi di potere di un regime ormai tramontato.
Quando siamo riusciti ad attraversare la frontiera con i miei colleghi, molti centrafricani mi chiedevano con rabbia di restare e "morire con loro”. Una volta attraversata la frontiera il proposito resta quello di ritornare e ricominciare a vivere con loro.
Serena Mandara*

*Cooperante di Coopi in Repubblica Centrafricana, ha dovuto lasciare il paese in seguito al Colpo di Stato del 24 marzo e attualmente si trova in un villaggio al confine, Betou, in Congo Brazzaville.