Parlare della corrida per parlare d’altro; mi sembra infatti di essere in tal modo più fedele allo spirito dell’intervista rilasciata da Piero Rinaldi e pubblicata nel penultimo numero di “Una città”. Conseguentemente a tale intervista si è sollevato un piccolo vespaio intorno alla corrida: sulle stesse pagine (ricordo in particolare l’intervista a Lilia Casali e l’intervento di Andrea Brigliadori) sono state esposte considerazioni a dir poco ragionevoli e giuste contro la barbarie di quel rito, e ha trovato spazio anche un’accorata difesa dei motivi che spingono chiunque, a mente fredda, a ritenere la corrida non degna di un “moderno occidentale”. Non mi propongo, quindi, di accrescere la schiera dei contrari, né tantomeno d’intervenire in difesa dei cultori del massacro. Intervengo perché mi sembra che la querelle ben si presti ad una serie di importanti -a mio parere importanti- riflessioni, in special modo se si parte da una precisazione.
Leggendo e rileggendo la sua intervista, sono sempre più convinto che Piero Rinaldi non intenda affatto parlare esclusivamente della corrida, né forse principalmente di essa. A ben vedere, il nocciolo delle sue riflessioni a voce alta consiste in qualcosa d’altro, che per mio conto riassumerei così: si potrebbe largamente filosofare su un tema di tal sorta; sicuramente su di esso sarebbe opportuno tornare, magari sfruttando altri spunti “occasionali”, ma qui intendo limitarmi ad indicare solo un paio di questioni.
Al cospetto del non-razionale solitamente ci si comporta in due maniere: o vi si abbandona, cercando in esso la pienezza della propria vita, la specificità che ci rende individui e non massa, magari enfatizzando virilità, coraggio, eroicità e codici d’onore; oppure si tenta di liquidarlo in nome di una Ragione che non può non incutere timore per l’astrattezza dei suoi principi e per il rigore marziano che la informa. Sembra proprio che l’uomo, “animale razionale”, si dimostri costantemente incapace di non scindere la propria essenza animale dalla propria natura razionale. Di compromessi tra queste due componenti dell’uomo sarebbe assurdo parlare, mentre forse meno assurdo mi pare sia sostenere la necessità della ricerca di un loro precario equilibrio. I Ministri della Ragione ci insegnano da secoli le ideologie care alla loro Dea, e la storia si è riempita dei loro sublimi e diabolici tentativi di realizzare l’Ordine. Raskol’nikov, e con lui Dostoevskij, insegna. D’altro canto, i passati dei Vitalisti non sono meno truci ed appaiono forse più eclatanti e certo più facili da aborrire per chi come “noi” è viziato dalla ricerca della ragionevolezza.
L’alternativa secca tra questi due tipi di esseri umani, lo confesso, mi metterebbe in grave imbarazzo, poiché non saprei da chi sperare meno disastri. Se da chi, per tornare al nostro spunto, inneggia alla corrida oppure da chi nega, e basta, i diritti di tutto ciò che non è Ragione. E pensare che la posta in gioco è di estremo rilievo, poiché coinvolge anche lo spinoso problema della gestione nel quotidiano di tradizioni millenarie in cui d’improvviso non sappiamo più riconoscerci, e di cui non sappiamo se ammirare la ritualità o denunciare l’inattualità. L’intreccio si fa poi ancora più complesso se si pensa che sia l’estetismo vitalista (la compiaciuta contemplazione delle manifestazioni “più basse” della natura umana) che il modernismo (il sentimento di appartenenza ad un’epoca superiore in cui le forme brutali del passato non hanno più diritto di cittadinanza) sono figli gemelli dello spirito colonizzatore che contrassegna la cultura occidentale, e perciò stesso sono entrambi incapaci di un rapporto non-violento con le tradizioni che stanno al di là del confine, di qualunque confine. Il diverso appare in tutti e due i casi “inferiore”. Sia adottando uno sguardo da nostalgico e stupefatto esploratore, sia impugnando la spada benedetta della crociata, l’occidentale ha comunque imposto la propria diversità come normalità, riducendo gli altri a non-normali, ad animali da osservare ovvero a bestioni da educare. Davvero un bel pasticcio dover scegliere.
Nell’intervista di Piero Rinaldi non trovo però le tracce di un puro Vitalismo. Intanto vi scorgo anche il senso di orrore, e non la mera contemplazione estetica del rito, e se da un lato vi si confessa una sorta di esaltazione, per un altro verso vi si testimonia anche una lucida consapevolezza dell’assurdità e della follia del rito. Lo spettatore cerca ...[continua]

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