10 agosto 2011. Su Nicola Chiaromonte
Bello il fascicolo dello "Straniero” dedicato a Nicola Chiaromonte e interessante anche l’articolo di Vittorio Giacopini uscito per annunciarlo, sul domenicale del "Sole 24 ore”, anche se, quest’ultimo, qualche perplessità in noi l’ha destata. Forse perché ci siamo sentiti tirati in mezzo quando Giacopini lamenta di "vederlo -Chiaromonte- imbalsamato in stucchevoli santini, figurine, melense e scipite immagini d’accatto”. A chi si riferisce? Anche a noi visto che siamo tra i pochi che parlano di Chiaromonte? Forse no e non abbiamo difficoltà ad ammettere che a renderci sospettosi può essere la coda di paglia, da neofiti, che ci impaccia. In fondo siamo diventati "seguaci” (ma politici e non solo antipolitici) di Chiaromonte (ma pure di Salvemini, di Merlino, di Gnocchi-Viani, di tutti i socialisti umanitari e non scientifici, cioè) in età avanzata e dopo aver passato dieci anni di militanza politica nell’estrema sinistra; fatto è che di Chiaromonte, forse perché troppo impegnati a scrivere e a leggere volantini inneggianti "alle masse” e a Mao, non conoscevano neppure il nome (e meno male perché l’avremmo odiato come un bieco servo dei padroni, da editorialista "anti-68” della "Stampa”).
Ma è un altro, a dir la verità, l’aspetto che nell’articolo del Sole ci rende perplessi: nulla da dire sul "metodo di lavoro senza metodo” di Chiaromonte, del suo corpo a corpo con la realtà per capire, e sul fatto che lì sta gran parte della sua lezione, ma leggendo poi dell’"eco spenta di alcune polemiche retrive (il suo giudizio sul 68, la sua avversione per Sartre, l’amarezza e il rancore degli ultimi anni...)” e del suo anticomunismo (molto presunto, a detta di Giacopini) ma comunque "anticaglia da guerra fredda”, vien da pensare che quel suo metodo "impareggiabile”, "straordinario”, "eccezionale”, non lo sapesse poi usare tanto bene.
Polemica retriva sul 68? Beh, la sua preveggenza su come l’anima ideologicamente totalitaria del 68 sarebbe potuta sfociare in una violenza cieca e fascistoide a noi è sembrata magistrale. L’avversione per Sartre? Basterebbe ricordare il racconto che fa Gustav Herling del suo incontro "fatale” con Chiaromonte. Mentre i carri armati russi sparavano sugli operai ungheresi e al caffè Rosati discutevano su cosa si poteva fare, all’arrivo di un noto scrittore, amico di Chiaromonte, già esponente di rilievo di Giustizia e libertà, che sedendosi esordì con una battuta sulla quantità di dollari investiti in Ungheria, "Nicola diventò pallido, lo mandò via in malo modo dal nostro tavolino e per molto tempo non riuscì a placare la sua agitazione”. Non sappiamo di questioni filosofiche, ma uno così cosa avrebbe potuto provare per chi, come Sartre, non voleva raccontare agli operai di Billancourt cosa succedeva a Mosca per non demoralizzarli? Del resto l’amico di Chiaromonte era Camus, che a quei tempi non andava per la maggiore a sinistra.
Il suo anticomunismo legato alla guerra fredda? No, qui la guerra fredda non c’entra proprio nulla. Al fondo tutti loro, i cosiddetti socialisti umanitari, erano dei libertari federalisti che amavano la società e detestavano lo stato, che credevano che "il socialismo come scienza”, oltre che un’enorme sciocchezza, fosse molto pericoloso. Si rifacevano a Proudhon invece che a Marx. Nel numero 5  del 1957 di "Tempo Presente” compare questa nota a firma di Ignazio Silone: Il 17 maggio 1846, P. J. Proudhon, che allora contava trentasette anni, scrisse da Lione a Karl Marx, che allora ne contava ventotto, questa letterina: «Mio caro signor Marx, [...] cerchiamo assieme, se lo volete, le leggi della società, il modo come queste leggi si realizzano, il progresso seguendo il quale noi riusciamo a scoprirle; ma, perdio, dopo avere demolito tutti i dogmatismi a priori, a nostra volta non aspiriamo a indottrinare il popolo; non cadiamo nella contraddizione del vostro compatriota Martin Lutero che, dopo avere abbattuto la teologia cattolica, si mise subito, aiutandosi con scomuniche e anatemi, a fondare una teologia protestante... Applaudo di tutto cuore alla vostra idea di far posto a tutte le opinioni: facciamo una buona e leale polemica; diamo al mondo l’esempio d’una tolleranza sapiente e previdente; ma, solo perché siamo alla testa del movimento, non facciamoci i capi di una nuova intolleranza, non posiamo ad apostoli d’una nuova religione, fosse pure la religione della logica, la religione della ragione. Accogliamo tutte le proteste, condanniamo tutte le esclusioni...; non consideriamo mai un problema come esaurito... A questa condizione entrerò con piacere nella vostra associazione; altrimenti, no!».
(Dai santi ai fanti: sappiamo bene che il comunismo è morto e sepolto e che anche il marxismo, malgrado i tentativi di rianimazione, non ha speranze di sopravvivenza, ma lo statalismo no, affatto, è vivo e vegeto e noi crediamo che resti il problema dei problemi per le sinistre di mezzo mondo. E crediamo pure che da noi l’incontro fra l’irrefrenabile passione statalista dei comunisti, ex, post, neo, eccetera, e anche, purtroppo, dei socialisti, con uno stato oltremodo centralista, oltremodo burocratico e corporativo nonché corrotto fin nel midollo, spieghi tanta parte del nostro recente passato e del nostro presente. Giacopini ci capirà allora se parole come "retrivo”, "anticaglie”, "modernariato”, sono sembrate, a noi almeno, poco centrate).
Tempo fa un nostro amico, un mutualista, innamorato di tutto ciò che si muove nel sociale, che doveva parlare a un pubblico di estrema sinistra del "partito della società”, ci disse che avrebbe citato solo Gurvitch, grande sociologo-filosofo proudhoniano, perché "Proudhon, per quelli, voleva dire Craxi”. (gs)

12 agosto 2011. L’uno e il due
è un gran piacere ascoltare padre Pierre Riches parlare di religioni e delle due grandi, le uniche veramente grandi secondo lui, cristianesimo e buddismo, perché basate su due idee opposte ma altrettanto geniali: affrontare la sofferenza esaltando il desiderio, il primo, affrontare la sofferenza eliminando il desiderio, il secondo. Poi, però, bisogna tornare sulla terra, dove abbiamo trovato Stefano Levi della Torre  e Vicky Franzinetti che ci hanno parlato del vecchio, prosaico, regime pattizio ebraico. Che, fra l’altro, sta sul due e non rincorre l’uno.

17 agosto 2011. L’ospedale per i prematuri
Il 20 ottobre prossimo chiuderà l’Istituto di puericultura di Parigi (Ipp), un’istituzione nella cura dei neonati nati prematuramente. Nato all’indomani della prima guerra mondiale, l’Ipp ha accompagnato la storia della pediatria moderna in Francia; è stato il primo ad aprire una scuola di formazione in puericultura, ad aver organizzato la raccolta del latte materno per i piccoli ricoverati nel centro e ad aver lanciato, nel 1970, un centro per accompagnare bambini con ritardi nello sviluppo. Il punto di forza dell’Ipp, oltre alla sua competenza nelle cure intensive neonatali, è il fatto che si occupa del bambino nella sua globalità, in costante dialogo con la famiglia. Ad esempio, da oltre vent’anni, le madri cieche trovano qui un ascolto particolare. Questa "concentrazione di specialisti dell’infanzia in una struttura unica, a dimensione umana”  è la forza dell’istituto, ma proprio questo è destinato a scomparire. Purtroppo, in un sistema sanitario improntato al profitto, è sempre più difficile trovare una nicchia per queste esperienze d’eccellenza. D’altro canto Nicolas Sarkozy è stato chiaro: entro il 2012 tutti gli ospedali dovranno rientrare dai loro deficit. L’Agenzia regionale della sanità dell’Ile-de-France non può più permettersi di coprire i buchi di budget. Il personale verrà impiegato in altri ospedali. Il giudice deputato alla liquidazione ha già individuato due segmenti: da una parte la rianimazione, le cure intensive, la pediatria neonatale, dall’altro i servizi medico-sociali e la scuola di puericultura. I servizi verranno quindi mantenuti, anche se in luoghi diversi, ma quella fortunata miscela di competenza e umanità non ci sarà più. (Le Monde)

18 agosto 2011. Lost generation
Sapevo che dopo la laurea mi sarei imbattuta in un mercato del lavoro difficile, così mi sono buttata in ogni genere di esperienza lavorativa extra-curricolare per farmi notare, ma mi ritrovo ancora senza lavoro. La mia famiglia mi sostiene, finanziariamente ed emotivamente. Non tutti sono così fortunati. Oggi per lavorare devi avere un master o "esperienza”. Ma un master costa tra le 5000 e le 9000 sterline, e le possibilità di fare esperienza sono legate più alle conoscenze che alla competenza. Se prima ero piena di entusiasmo per la vita dopo gli studi, posso dire che decisamente la festa è finita: è la fine delle illusioni (Rosa McMahon, 22 anni, laureata all’università di Birmingham, vive a Norwich).
La mia giornata tipica inizia alle nove. Mi alzo e inizio a cercare e a compilare domande di lavoro online. Prima guardavo solo le occasioni di far carriera nel mio campo: arte, musica e media. Ho avuto degli ottimi voti alle superiori e mi sono laureato bene, ma non serve. Mi presento sempre ai colloqui: fila tutto liscio, ma alla fine vengo respinto. La prima volta che ho firmato per la disoccupazione è stata dura. All’ufficio di collocamento c’era gente che non sembrava proprio pronta a lavorare -qualcuno puzzava d’alcool. Là non sanno cosa fare con i laureati (James Boughey, 22 anni, ha studiato musica al King’s College, vive a Liverpool).
Ieri sono tornato a casa. Ho lavorato per due settimane in un call center, ma non riuscivo a pagarmi l’affitto a Brighton, così eccomi qui. Dormo in un divano letto e giro con la valigia. Non proprio quello che avevo in mente dopo la laurea. Passo le giornate cercando lavoro in internet... Mi piaceva l’università, anche se ora mi chiedo se ne sia valsa la pena. Ho studiato ciò che volevo, ma non mi serve a trovare lavoro. Sono tutti laureati: serve altro per riuscire. Magari le cose andranno meglio, ma per il momento ho trenta sterline sul conto e non è una cosa bella (Tom Hughes, 21 anni, laureato a Brighton in Letteratura inglese, vive a Croydon).
(www.independent.co.uk)

20 agosto 2011. Fuga dal matrimonio
"Con il suo leggero abito a pois e una carriera come psicologa, Yi Zoe Hou di Taiwan dà l’idea di essere assediata da uno stuolo di pretendenti”. In realtà, a 34 anni, ha già superato l’età da matrimonio. Ma non se ne preoccupa: se per i taiwanesi è troppo vecchia, cercherà altrove e se vuole un figlio, ci sono anche altri modi: c’è la banca del seme e si può sempre chiedere a un amico...
Così comincia un lungo reportage pubblicato sull’Economist in cui si parla dei profondi cambiamenti che stanno avvenendo in Asia.
Il modello familiare asiatico non è unico: se il Sud è caratterizzato da matrimoni precoci e famiglie allargate, l’Est predilige la famiglia nucleare; nel Sud-Est, ancora, le donne godono di maggiore autonomia. In Asia meridionale e in Cina, dove le tradizioni resistono, il 98% di uomini e donne si sposa e solo il 2% dei bambini nasce fuori del matrimonio -contro il 55% della Svezia e il 66% in Islanda.
Comunque, anche in Asia, le cose stanno cambiando e il primo cambiamento riguarda il fatto che ci si sposa più tardi, addirittura più tardi che in Occidente; il secondo è che aumenta la quota di persone che non si sposa affatto: nel 2010, oltre un terzo di donne trentenni giapponesi e taiwanesi era single (in Gran Bretagna e Usa il dato si attesta sul 13-15%). In Corea del Sud gli uomini iniziano a parlare di "sciopero del matrimonio” da parte delle donne.
Ciò che distingue queste giovani donne da quelle occidentali è che le donne asiatiche che non si sposano tendenzialmente non convivono e non fanno figli; una vita da "nubile” a tutti gli effetti. A compiere una scelta così radicale sono soprattutto donne istruite e con un reddito. Avere un lavoro rende autonomi, anche dal matrimonio. Se nei paesi occidentali le donne tendono a cercare di conciliare casa e lavoro, in Asia "il peso del matrimonio” è tale da rendere poco attrattiva la prospettiva di fare la moglie, rispetto a quella di lavorare. E comunque le due opzioni non sembrano conciliabili perché non c’è alcuna condivisione dei lavori domestici e di cura.
Ma la questione è un’altra: il fatto che le donne possano finalmente scegliere se sposarsi o meno è positivo o c’è da preoccuparsi? La società sta metabolizzando con fatica questa scelta così repentina: in Giappone i "single” vengono visti come dei parassiti. A Singapore il governo, preoccupato per il declino del matrimonio tra le sue donne più istruite, ha messo su un servizio di appuntamenti, lovebyte.org.sg. Siccome le don­ne preferiscono sposare un uomo più ricco e più istruito ("marry up”), le due categorie più a rischio sono le donne istruite e in carriera e gli uomini poco istruiti e poveri. La Cina ha già coniato dei termini per i due gruppi: sheng-nu (donne in avanzo) e guang gun (rami secchi: per gli uomini che non contribuiranno ad allungare l’albero genealogico).
(www.economist.com)

5 settembre 2011. L’Iran guarda la Siria
In Iran, negli ultimi due mesi, sono aumentate le pressioni sugli attivisti politici. Nel mirino non ci sono solo gli oppositori: durante l’estate ci sono state irruzioni delle forze di sicurezza durante manifestazioni ambientaliste, nel corso della cene del Ramadan, nei parchi e addirittura in abitazioni private. Sono state arrestate dozzine di persone, da Teheran a Tabriz, accusate di cospirare contro la Repubblica Islamica e di diffondere informazioni sui social media, racconta Farnaz Fassihi, del Wall Street Journal. Quello che sta succedendo in Siria fa paura. Ormai infatti è chiaro che i giovani dei vari paesi interessati dalla Primavera araba sono in contatto e il contagio è dietro la porta. Lo scorso venerdì, grazie a Facebook, è stata simulata una guerra con le pistole ad acqua. La polizia è arrivata, ha disperso i manifestanti e qualcuno è stato arrestato. Ma la situazione è seria.
Kouhyar Goudarzi, 25 anni, attivista dei diritti umani, è stato prelevato a casa lo scorso 31 luglio e da allora non se ne ha notizia. Sua madre ha subito fatto partire una campagna per liberarlo. È stata arrestata anche lei. Behnam Ganji, 22 anni, studente di ingegneria, si è suicidato la scorsa settimana dopo essere stato liberato dal famigerato carcere di Evin, a Teheran. Non era un ragazzo impegnato politicamente, ma purtroppo era un amico di Kouhyar.
(www.wsj.com)

7 settembre 2011. Virus
"L’anno scorso si è diffusa la notizia di un virus informatico che è riuscito a penetrare le maglie di sicurezza degli impianti nucleari iraniani”, così comincia un lungo articolo di David M. Nicol pubblicato sul numero di settembre delle Scienze. Il virus di cui si parla si chiama Stuxnet e il "contagio” non è nemmeno avvenuto via internet, bensì con una semplice chiavetta Usb, inserita da un tecnico "al di sopra di ogni sospetto”. Stuxnet ha viaggiato per un po’ prima di individuare il suo obiettivo: il controller della velocità delle centrifughe usate per arricchire l’uranio; il virus però non si è limitato a portare tale velocità oltre i limiti di resistenza dei rotori, ma ha anche inviato ai sistemi di controllo il (falso) messaggio che andava tutto bene.
L’entità del danno è rimasta ovviamente sconosciuta, si sa però che tra la fine del 2009 e il 2010 l’Iran ha dovuto sostituire circa mille centrifughe. Quella che per molti è sicuramente una buona notizia, in realtà getta un’ombra sulla sicurezza delle apparecchiature industriali controllate da computer, in primis la rete elettrica, che è sicuramente più vulnerabile di un impianto nucleare. Gli scenari possibili, nel caso in cui il virus finisse nelle mani di un gruppo di malintenzionati sono inquietanti: un attacco coordinato su più nodi della rete potrebbe impedire a una nazione "di generare e distribuire elettricità per settimane, forse per mesi”. Eventualità non poi così remota visto che il codice di Stuxnet è disponibile su internet.
(Le scienze)

10 settembre 2011. Poste in Usa
Il servizio postale americano è in grave crisi.
L’Amministrazione Obama ha concesso una proroga, ma la situazione è critica: con un deficit di dieci miliardi di dollari, potrebbe trovarsi al collasso entro l’inverno.
Per risalire la china, la ricetta è molto dolorosa. Le misure prospettate vedono infatti la fine delle consegne il sabato, la chiusura di 3700 uffici e il licenziamento di 120.000 lavoratori (anche se i sindacati sono già sul piede di guerra perché il contratto non permette di estromettere chi lavora lì da almeno sei anni). La crisi finanziaria è dovuta a una situazione complessa: è da tempo che si sta riducendo il volume di posta spedita. In tutti questi anni però le poste si sono rifiutate di tagliare il personale o di ridimensionare il servizio. Come non bastasse il servizio è impossibilitato, per statuto, a buttarsi su altre linee di business e non può aumentare il costo dei servizi oltre il tasso di inflazione. Le misure di correzione stanno già sortendo molte polemiche, perché verosimilmente saranno chiusi soprattutto gli uffici delle aree rurali, con gravi disservizi per la popolazione.
Le poste, da parte loro, si difendono, imputando il deficit anche alla copertura sanitaria dei propri ex dipendenti in pensione. La senatrice democratica del Missouri, Claire McCaskill, ha lanciato una proposta: visti i capolavori che sono stati scritti a partire dalle lettere, ad esempio, dei Padri Fondatori, o dei soldati al fronte, perché non lanciare una sorta di campagna pubblicitaria per convincere gli americani a tornare a scriversi delle lettere vere? "C’è qualcosa di speciale nel ricevere una lettera, sapendo che viene da qualcuno che ami”. Se si riuscisse a dare il giusto valore (di mercato) all’emozione di aprire una busta con una lettera che arriva da una persona cara, potrebbero esserci delle sorprese nella prossima stagione natalizia, ha concluso la  McCaskill.
(www.nytimes.com)

12 settembre 2011. Il Grana Padano dei Sikh
"Gli elenchi del telefono della provincia di Cremona negli ultimi anni hanno visto aumentare la presenza del cognome Singh”. Così comincia un lungo articolo di Elisabetta Povoledo, corrispondente del New York Times, sui Sikh che fanno i "bergamini” (i casari nel dialetto locale) nell’area del Grana Padano. Arrivati dal Punjab ormai vent’anni fa, si dice siano talmente indispensabili che, se scioperassero, la produzione del Grana Padano si fermerebbe. L’arrivo degli indiani, soprattuto Sikh, è coinciso con un periodo di grave crisi dovuta al fatto che una generazione di lavoratori dei caseifici stava andando in pensione, senza sostituti in vista. "I giovani italiani non vogliono lavorare in queste fasce orarie -racconta il sindaco di Pessina Cremonese, Daligo Malaggi- preferiscono lavorare in posti dove possono avere le sere e i fine settimana liberi”. Invece i Sikh sono a detta di tutti particolarmente bravi: d’altra parte questo, più o meno, è il lavoro che facevano anche in Punjab. Dilbagh Singh, arrivato in Italia dodici anni fa, quando ne aveva quattordici, oggi parla con l’accento di Nogara (Mantova). Lui è venuto qui per lavorare e vivere in pace. Vorrebbe che gli italiani conoscessero meglio i Sikh così ha messo su un sito. Ormai anche i Sikh sono alla seconda generazione: i bambini sono nati qui, parlano italiano e studiano duro; gli imprenditori della zona hanno già capito che non faranno il lavoro dei loro genitori, andranno all’università o comunque cercheranno di meglio.
Quest’estate, dopo dieci anni di intoppi burocratici, e la ferma opposizione della Lega, è stato infine completato il Gurduwara Sri Guru Kalgidhar Sahib, un tempio Sikh atto a ospitare comodamente seicento persone (anche se ce n’erano almeno sei volte tante il giorno dell’inaugurazione, il 21 agosto). I soldi -quasi due milioni di euro- sono stati raccolti dalla comunità. È il tempio Sikh più grande dell’Europa continentale.
(www.nytimes.com)

16 settembre 2011. Scuole libere?
Da settembre, in Gran Bretagna, apriranno ventiquattro "free school”, delle scuole private aperte da soggetti confessionali, da gruppi di insegnanti o di genitori che riceveranno gli stessi fondi destinati alle scuole pubbliche (proporzionati al numero degli studenti iscritti), avendo però piena libertà nell’organizzazione dei curriculum, degli orari, delle vacanze, ecc. [Ne parla Belona Greenwood a pag. 27].
Si tratta di un modello importato dalla Svezia, dove però proprio in queste settimane è uscito un rapporto che denuncia come l’ingresso di operatori privati abbia portato maggiore segregazione, senza peraltro aumentare i risultati degli studenti, anzi. Le motivazioni del fallimento sarebbero diverse: in alcune "free school” gli esaminatori (essendo interni) sarebbero di manica larga rispetto alle scuole municipali; la totale autonomia nella gestione avrebbe portato a scelte decisamente discutibili: ci sono scuole che non hanno una biblioteca, o che magari dedicano la maggio parte delle ore a danza e canto; ma in generale il dubbio è che la ricerca del profitto alla fine vada a scapito della qualità.
Certo è che nelle classifiche internazionali, i risultati degli studenti svedesi, in media, sono calati un po’ in tutte le materie, umanistiche e scientifiche.
Richard Orange, giornalista del Guardian, è andato a indagare e, da Malmö (terza città della Svezia), racconta che il giorno di riapertura delle scuole si è trovato di fronte a una scena curiosa: in giro per la città c’erano gruppi di studenti che confrontavano i portatili dati loro in dotazione dalla scuola. Se ProCivitas, la più prestigiosa "scuola libera” (e profit) della città si è buttata sui mini Hp e alla Thoren Business School danno i Dell, il liceo comunale -per sbaragliare la concorrenza dei privati- ha deciso di dare ai suoi studenti nientemeno che dei MacBook.
Orange racconta che per ora genitori e studenti sembrano soddisfatti del modello, anche se preferirebbero che le compagnie private evitassero di metter su scuole per mero profitto. L’accusa più grave dello studio è però quella della segregazione. In effetti, a confrontare la ProCivitas (dove sono tutti vestiti bene e di immigrati se ne vedono pochi) e il Kunskapsgymnasiet (dove oltre il 60% è costituito da immigrati e profughi) qualche dubbio viene.
Non bisogna però pensare che siano i presidi a scegliere gli allievi. In realtà le scuole possono solo comunicare quanti studenti accettano. Il fatto è che se la ProCivitas, che offre trecento posti, riceve mille domande, il Comune manderà quelli con i profitti migliori. D’altra parte, se il Kunskapsgymnasiet ha più posti dei richiedenti finirà con il dover accettare tutti quelli che non sono riusciti a entrare nella scuola scelta. Insomma c’è qualcosa che non va.
Il Kunskapsgymnasiet fa parte di una rete di trentadue scuole indipendenti (Kunskapsskolan) caratterizzate da un sistema che punta sulla massima responsabilizzazione degli studenti che possono decidere liberamente quando, dove e cosa studiare. Per esempio, i corsi di informatica e nuove tecnologie vengono fatti online, l’inglese si può decidere di impararlo guardando la tv... I dirigenti della Kunskapsskolan sostengono che la formula funziona e che nonostante alcuni studenti arrivino all’università con qualche lacuna ("alcuni studenti in effetti hanno qualche difficoltà a maneggiare tutta questa libertà”), questo sistema in realtà è proprio quello giusto per premiare i giovani ambiziosi, anche gli immigrati. Diversa l’idea che si è fatto Mohamed, che frequenta il Kunskapsgymnasiet a Malmö: la sua impressione è che in quella scuola neanche gli insegnanti abbiano voglia di andarci: "Perché ci considerano senza futuro”.
(guardian.co.uk)

16 settembre 2011. I tedeschi e noi
Alla bella trasmissione radiofonica di Oscar Giannino (Radio24, ore 9) un giornalista tedesco, alla domanda: "In questo momento cosa pensano degli italiani i lavoratori tedeschi?”, ha risposto: "Pensano che state chiedendo loro di garantirvi per migliaia di miliardi di euro mentre in Italia, tutti i giorni, litigate fra voi per cento milioni di euro”. Da correre a nascondersi.

18 settembre 2011. Quelli del Foglio
Quelli del "Foglio” sono talmente convinti di essere i più intelligenti di tutti, i più liberi di tutti (tanto liberi da poter decidere di esser servi devoti di questo e di quell’altro) e i più onesti di tutti (perché i soli a confessare, ma da un pulpito s’intende, che siamo tutti disonesti) che quando parlano con qualcuno hanno sempre un sorriso di compiacenza stampato in viso. L’altra sera in tv Alessandro Giuli, a confronto con un Peter Schneider scandalizzato per via del nostro premier, non faceva che sorridere ruotando in giro la testa. E alla domanda insistente di Schneider: "Ma lei cosa pensa del fatto che il premier di un paese possieda le televisioni?” non ha saputo che ripetere il ritornello che "Se D’Alema non ritenne di fare una legge… allora…”. Ma allora che? E Schneider: "Ma lei, dico lei, lei cosa pensa?”. Silenzio e sorriso fisso su testa ruotante.
Ce la farà mai uno del "Foglio” a sapere, se non a capire, che il conflitto di interessi è questione vitale, sine qua non, per dei liberali prima che per chiunque altro e molto, molto prima che per un post-comunista? (Ma infatti.)