Nati o cresciuti nel nostro paese, i giovani di origine straniera costituiscono una presenza sempre più numerosa e una componente significativa dell’universo giovanile italiano. Se ancora non sono riconosciuti come cittadini, parlano, pensano e sognano in italiano e con lo stesso grado di incertezza dei loro coetanei autoctoni immaginano di costruire qui il proprio futuro.
Allo stesso tempo, e spesso senza contraddizione, sono legati alle terre dei propri padri, e non di rado anche alla lingua e alla cultura di quei paesi di cui seguono con partecipazione le vicende politiche e i mutamenti sociali. Non sono e non si sentono "immigrati”, sebbene vengano spesso assimilati alla condizione dei loro padri, ma nemmeno "italiani e basta”, come qualcuno di loro specifica. Dalla loro esperienza (pioneristica in Italia) possiamo trarre almeno tre lezioni importanti.
Italiani e molto altro
Lacerati tra due culture, ibridi in perenne crisi di identità: una analisi affrettata porta spesso a immaginare così questi giovani, che appaiono piuttosto come dei "traduttori di mondi” chiamati a svolgere un prezioso ruolo di mediazione linguistica e culturale tra le proprie comunità e la società italiana. Custodire le origini e inserirsi positivamente nella realtà italiana non sono due sfide contrastanti, ma strategie complementari nella formazione di identità plurali e interculturali. Ci si può sentire italiani e allo stesso tempo cinesi, turchi o egiziani: una condizione che caratterizzerà un numero sempre crescente di cittadini anche nel nostro paese (Fornari, Molina, 2010). Questa, dunque, la prima lezione che ci può giungere dai giovani di seconda generazione.
Una ragazza di origine etiope racconta di sentirsi come una "noce di cocco”, nera fuori e bianca dentro, continuamente obbligata a dichiarare la propria famigliarità a un paese che la vede ancora come straniera. Se la sua apparenza è "nera”, la sua cultura, la sua mentalità, la sua lingua sono "bianche”, italiane, senza che ci sia in questo nessuna contraddizione. Per le stesse ragioni, un ragazzo di origine cinese dice, con ironia, di sentirsi come una «banana», giallo fuori e bianco dentro, giudicato straniero "a motivo del proprio involucro cutaneo”[1]. È lo sguardo di chi li incontra per strada, in università, sul luogo di lavoro, che deve cambiare.
Dissonanze generazionali
In Maghreb la giovane e numerosa generazione manda a casa i propri dittatori e tenta, anche grazie alle straordinarie capacità propulsive dei social network, di prendere in mano le sorti dei propri paesi. In Italia, invece, i giovani vedono gradualmente erodersi le proprie prerogative in quasi tutti i contesti di potere e affermazione professionale, di fronte a una generazione di padri per nulla intenzionata a fare un passo indietro (Balduzzi, Rosina, 2009). Una dinamica che caratterizza in genere la società italiana, ma che coinvolge a un livello più micro anche genitori e figli all’interno di famiglie sempre meno conflittuali (Pietropolli Charmet, 2008).
Accostandosi all’esperienza delle famiglie immigrate si può osservare qualcosa di diverso. Appaiono non di rado segnate da quella che Zhou chiama "dissonanza generazionale” (1997), la distanza culturale tra genitori e figli in immigrazione che genera conflitti di visioni e dialoghi accesi all’interno delle famiglie stesse. I figli dell’immigrazione riportano in Italia, volenti o nolenti, l’importanza e la fecondità di un confronto aperto tra le generazioni. E lo fanno con modalità e strategie che sono da leggersi con attenzione.
Quando si trovano ad assumere un atteggiamento critico nei confronti della comunità religiosa, dell’amministrazione locale, del governo nel paese d’origine, sembrano esercitare, in qualche modo, il delicato ruolo di «critici interni», con l’espressione di Michael Walzer (2004), mossi da un desiderio di rinnovamento piuttosto che dall’intenzione sterile di provocare o prendere le distanze.
Se muovono critiche alla società italiana è perché ne sono figli, se esprimono giudizi verso la comunità etnica o religiosa di minoranza è perché in essa sono cresciuti assieme ai loro genitori, se esprimono disapprovazione verso le politiche del paese d’origine il loro sguardo è nutrito allo stesso tempo di stima e rispetto per la terra dei nonni, di cui si sentono fieramente i più diretti eredi. Un sano conflitto tra padri e figli, ci mostra concretamente l’esperienza dei giovani di seconda generazi ...[continua]

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