Cari amici,
se avete avuto modo di visitare la Tunisia "di una volta” -quella al di fuori dei circuiti turistici preconfezionati- vi sarete accorti di quell’enorme gap esistente tra la realtà e l’immagine del Paese all’estero. Da tempo nutrivo la sensazione che in Europa non potesse arrivare la vera Tunisia, quella del controllo costante su tutto e tutti, quella della censura su giornali, pagine web, programmi radio e tv, quella delle retate per l’arruolamento forzato di giovani, quella dell’abuso di potere da parte delle forze dell’ordine, quella dei giovani frustrati e tristi, quella di tutte le maggiori convenzioni internazionali ratificate nella forma ma non nella sostanza, quella del divieto di velo per le donne, quella Tunisia in cui tutti i beni del Paese erano nelle mani di Ben Ali e della odiatissima moglie Leila Trabelsi. Un paese che sembrava perfetto all’esterno, una sorta di idilliaco villaggio per le vacanze, ma che stava lentamente morendo dentro. Una "dittatura velata” che sembrava immutabile.
Eppure i tunisini ce l’hanno fatta: è bastato loro meno di un mese per liberarsi di un regime che durava da 23 anni. Tutto è iniziato il 17 dicembre, quando un modesto commerciante di 26 anni, Mohamed Bouaziz, si è dato fuoco vedendosi negare, per l’ennesima volta, la possibilità di lavorare per far fronte alle esigenze della sua famiglia. Quel suo gesto ha avuto un clamore enorme, suscitando profondo sdegno sulla popolazione: da una parte, perché per la prima volta ci si opponeva all’ingiustizia; ma soprattutto perché il suicidio è haram per l’Islam, ossia illecito. In un solo momento, cioé, sono stati infranti due saldi tabù in un Paese già in stato di allerta e tenuto a bada dal controllo dello Stato.
Il 14 gennaio, meno di un mese dopo, il presidente Ben Ali lasciava il Paese.
Proprio come una macchia, la protesta che è cresciuta nei villaggi più sperduti del Paese si è allargata fino alla capitale, dove è esplosa come una bomba. Con un impeto ed un impatto dettato da 23 anni di repressione, nessuno è stato in grado di capire cosa stesse realmente accadendo né come poter controllare questa nuova e inaspettata ribellione in un Paese fino a quel momento considerato la roccaforte del turismo mediterraneo e della lotta all’integralismo e al terrorismo islamico. Nel giro di una settimana a Tunisi si è iniziato a capire che non si trattava di una cosa passeggera, ma di uno di quei momenti che riempiranno i manuali di storia: la polizia era sempre più armata, i giovani, sempre più numerosi, si riversavano nelle strade per manifestare il loro dissenso e le voci di morti per mano della polizia diventavano sempre più ricorrenti. Il moderato dittatore Ben Ali, dal canto suo, non abituato a vedere il suo popolo ribellarsi e manifestare, non è stato in grado di capire la portata degli eventi. E al posto di riportare la calma, ha contribuito a fomentare le masse già esauste, minacciando il popolo di fare ricorso all’uso della violenza e autorizzando la polizia a sparare per reprimere i rivoltosi. Gli scontri sono aumentati così come il numero dei morti uccisi dalla polizia. Il tutto ha innescato una pseudo guerra civile, mai vista nella storia della Tunisia, tra forze dell’ordine e civili. Quando Ben Ali ha provato a tornare sui suoi passi, parlando con fare più dimesso, meno aggressivo e lasciando spazio a cambiamenti decisivi per il Paese, ormai era troppo tardi. La rivolta era esplosa e dalla condanna alla disoccupazione era passata a colpire l’aumento dei prezzi, poi la censura, la mancanza di libertà di stampa e di espressione, la corruzione, l’abuso di potere e l’arricchimento sfrenato della famiglia presidenziale a discapito di un Paese sempre più povero. Giovani e adulti, ricchi e poveri, donne e bambini avevano svelato, cioé, la vera immagine di un Paese solo in apparenza stabile e tranquillo.
Oggi vedo Yosra con il velo che ha indossato solo per andare a fare la preghiera. Mi fa sorridere il suo Insha‘ Allah per dire che adesso potrà indossarlo, finalmente. Prima le donne avevano il divieto non scritto di portare il velo: dovevano mostrare all’Occidente l’immagine di un Paese aperto e moderato. E per questa ragione venivano costantemente insultate e vessate in strada dalla polizia oltre a non poter accedere ai posti di lavoro nell’amministrazione pubblica.
Allo stesso modo, non posso non comprendere il fermento di Hamza, un giovane musicista che da piccolo periodicamente veniva "invitato”, con altri giovani artisti, a sessioni di formazione che in realtà si trasformavano in momenti di indottrinamento organizzato dal partito di Ben Ali in preparazione della loro esibizione all’estero. O ancora: avreste potuto immaginare che ad Al-Jazeera non era mai stata concessa l’autorizzazione ad avere un ufficio in Tunisia?
Per tanto tempo era come se quasi tutti sapessero e tacessero. Coscienti della situazione nel loro Paese, si limitavano a vivere in modo semplice non interferendo negli affari della famiglia del presidente. Un lavoro per arrivare a fine mese (lusso per pochi), una famiglia, qualche interesse da coltivare, le parabole che svettavano dai tetti per andare lontano, senza mai comprare giornali o libri, senza mai esporre le proprie idee in pubblico. Un aggirare l’ostacolo allenandosi per poterlo saltare, insomma.
Dovreste vedere adesso la fierezza del popolo tunisino. Non credo di aver mai ascoltato un inno nazionale cantato con tanto pathos e senso di appartenenza. Dovreste vedere la rilassatezza e la spensieratezza con cui camminano in strada, con cui si riuniscono, con cui sorridono, la forza con cui sono popolo, la loro costanza nel continuare a manifestare il loro dissenso affinché anche quei pochi membri del partito di Ben Ali rimasti al governo se ne vadano a casa, la loro voglia di fare festa, di esprimere in modo catartico le loro emozioni, la loro libertà, la voce della loro lotta. è emozionante osservare come la libertà possa ridare gioia e vita. Adesso tutti si chiedono con apprensione cosa sarà della Tunisia, come forse è giusto che sia.
Io preferisco soffermarmi ad assaporare questo momento e mi piace osservarli assemblarsi, ascoltarli parlare, vederli gioire. Mi piace illudermi, come loro, che questo momento non finirà.
Micol Briziobello