8 febbraio 2009
Si prega: la prossima volta, se possibile, un pastore, non un filosofo.

9 febbraio 2009. Lavoratori invisibili
L’Associazione Artigiani e Piccole Imprese Cgia di Mestre a gennaio ha denunciato come siano oltre sette milioni i lavoratori che se perdono il posto non hanno alcun sostegno al reddito.
Nello specifico, un dipendente su due nel settore privato in Italia è senza ammortizzatori sociali. Un esercito di 7.141.300 persone, pari al 50,9% del totale dei dipendenti italiani (escluso il pubblico impiego). Sono questi, assieme ai precari, i lavoratori più a rischio in questa fase di crisi economica. Si tratta di dipendenti che nel caso di espulsione dall’azienda non hanno nessuna misura di sostegno al reddito, come la cassa integrazione ordinaria o straordinaria.
Quanto ai settori di appartenenza di questi lavoratori “senza ombrello”, spicca per numeri assoluti quello dei servizi. In questo comparto ci sono 2.336.400 lavoratori dipendenti. Seguono gli occupati del commercio alle dipendenze di aziende con meno di 200 dipendenti (1.968.000), quelli dell’artigianato (889.500, con l’esclusione degli edili che usufruiscono della Cigo), i dipendenti di alberghi e ristoranti (870.000), quelli del credito/assicurazione (544.400 unità) e quelli delle comunicazioni (338.100 dipendenti). Chiudono la classifica i trasporti con 194.800 dipendenti.
Giuseppe Bortolussi, segretario della Cgia di Mestre, li ha definiti “lavoratori invisibili” perché quando stanno a casa non se ne accorge nessuno.
(http://cgia.slowdata.com)

9 febbraio 2009. Appello dei medici
La legge sul testamento biologico non può contenere un pregiudizio antiscientifico né essere in contrasto con il codice di deontologia medica.
Come medici impegnati ogni giorno nel prestare le cure bilanciando la volontà e le preferenze della persona malata con i fondamenti giuridico-deontologici della professione e con le acquisizioni della comunità scientifica, nell’imminenza dell’esame da parte del Parlamento del ddl sul Testamento Biologico, con grande preoccupazione ma con altrettanta convinzione desideriamo far presente che una legge sul Testamento Biologico:
1. Non deve essere in contrasto con l’assunto condiviso da tutta la comunità medico-scientifica che la Nutrizione Artificiale è un trattamento medico e quindi come tale non può essere attuata in presenza di una volontà contraria della persona.
2. Non deve essere in contrasto con l’art. 53 del Codice di Deontologia Medica, che afferma che: “Quando una persona rifiuta volontariamente di nutrirsi se è consapevole delle possibili conseguenze della propria decisione, il medico non deve assumere iniziative costrittive né collaborare a manovre coattive di Nutrizione Artificiale nei confronti della medesima, pur continuando ad assisterla”.
3. Non può essere in contrasto con quanto affermato nell’art 32 della Costituzione “Nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se non per disposizione di legge…”.
Ci rivolgiamo in particolare ai numerosi Colleghi medici presenti in Parlamento affinché, proprio nel loro ruolo di valore istituzionale, non disattendano quanto si evince, in materia di nutrizione artificiale, dalle oggettività scientifiche unanimemente condivise e dalla deontologia medica.
E’ possibile aderire a questo appello, firmato ad oggi da oltre 400 medici, inviando il proprio nome, cognome, qualifica professionale a ­info@desistenzaterapeutica.it

23 febbraio. Appello della Società Italiana di Cure Palliative
La preoccupazione che viene manifestata in questi giorni all’interno della nostra categoria di medici palliativisti per l’eventuale approvazione del ddl Calabrò ci chiama come Società Italiana di Cure Palliative ad intervenire nuovamente nel dibattito pubblico per ribadire alcuni principi clinici che potrebbero essere compromessi da questo disegno di legge così come lo abbiamo conosciuto nella sua prima versione.
Vogliamo dunque innanzitutto ribadire che i professionisti delle cure palliative da decenni si prendono cura dei malati e delle famiglie che stanno vivendo una malattia inguaribile.
Secondo la definizione dell’Oms le cure palliative danno sollievo al dolore e a tutti gli altri sintomi fisici che provocano sofferenza, affrontando anche gli aspetti psicologici, sociali e spirituali della malattia nella fase avanzata. Esse sostengono la vita e guardano al morire come a un processo naturale; aiutano il paziente a vivere quanto più attivamente possibile fino alla morte; non intendono né affrettare né posporre la morte.
Il primo obiettivo delle cure palliative è migliorare la qualità della vita dei malati terminali, alla luce del concetto di qualità di vita che ciascun malato ha in sé, assicurando la migliore terapia per quel malato, con quella malattia, in quel momento della sua vita.
Ed è proprio alla luce di questi principi che siamo preoccupati e per questo ribadiamo come contributo alla formulazione della legge quanto già scritto nel 2006, nel documento sulle direttive anticipate in cui abbiamo cercato di racchiudere e sintetizzare la pluralità di opinioni di cui la Sicp è espressione.
Ci permettiamo ancora di sottolineare che nella vera alleanza terapeutica non si può non tenere in considerazione il concetto di qualità di vita espresso dalla persona che abbiamo in cura e di cui ci prendiamo cura. Una vera alleanza terapeutica, condivisa, non è basata su principi astratti: parte dal malato ed è sostenuta da ciò che malato e medico condividono per raggiungere l’obiettivo di cura che il medico, in scienza e coscienza ha contribuito a definire, ma che il malato, in ultima analisi, ha valutato e scelto.
Le Direttive Anticipate di Trattamento non sono in contrapposizione al rapporto che è alla base dell’alleanza terapeutica. Rappresentano, al contrario, un contributo al rafforzamento e al miglioramento della stessa. Disincentivare le Direttive Anticipate di Trattamento rendendo indaginoso il percorso che porta ad una loro formulazione giuridicamente accettabile, non rappresenta la strada più aperta al riconoscimento della volontà, informata, del malato quale elemento fondante dell’alleanza terapeutica. Riteniamo infatti che le Direttive Anticipate di Trattamento non possano non essere vincolanti per il medico, come abbiamo ribadito anche nel nostro documento del 2006.
La Società Italiana di Cure Palliative esprime le proprie preoccupazioni e perplessità rispetto all’imposizione di nutrizione e idratazione ai malati, al di fuori di una valutazione di appropriatezza-proporzionalità, al di fuori di una condivisione degli obiettivi di cura, al di fuori di un consenso informato quale espressione della volontà del malato. Come abbiamo già avuto modo di ribadire in precedenza, obbligare i nostri malati, che si avviano verso il termine della vita, in cui naturalmente il corpo della persona non chiede più acqua e cibo, a trattamenti che di fatto non aiutano a vivere meglio, ma paradossalmente possono portare a delle effettive complicanze e disagi, non rientra fra i nostri doveri. In scienza e coscienza. Confidiamo dunque in una presa in considerazione da parte della politica di queste nostre osservazioni di specialisti che possano portare a una revisione di alcuni passaggi a nostro giudizio poco appropriati del ddl Calabrò.
(www.sicp.it)

26 febbraio 2008. Le madri di Tiananmen
In previsione del ventesimo anniversario delle manifestazioni democratiche di Piazza Tiananmen del 4 giugno 1989, l’associazione Madri di Tiananmen, guidate da Ding Zilin, 73 anni, il cui figlio, all’epoca appena adolescente, fu assassinato dalle fucilate sparate a bruciapelo dai soldati, ha chiesto all’associazione Human Rights in China di divulgare una lettera inviata ai leader cinesi.
Ne pubblichiamo uno stralcio.
“Le Madri di Tiananmen hanno sempre avuto una convinzione: si deve agire e parlare in base ai fatti, e non accettare alcuna menzogna. Sin dal principio delle nostre attività d’inchiesta, abbiamo sempre controllato e verificato tutti i dati relativi alle persone in questione. Fino ad oggi, non abbiamo riscontrato alcun precedente violento nelle storie dei 194 morti ammazzati che abbiamo preso in esame: tutti loro sono da annoverare tra le vittime innocenti di quel massacro. Hanno dato la loro vita per l’ideale della giustizia, e l’unica cosa che possiamo fare è rendere loro giustizia, ottenere quella giustizia che, per loro, arriva tanto tardivamente. Diversamente, non riusciremmo mai a convivere con gli spiriti dei nostri defunti.
E’ dal 1995 che il nostro gruppo torna in questo luogo per scrivere ai membri dell’Assemblea del Popolo, e sottoporre loro le nostre tre richieste per il riconoscimento di quell’evento. Chiediamo una nuova inchiesta sull’accaduto, una dichiarazione pubblica sul numero delle vittime, la diffusione della lista contenente i nomi dei defunti; che ciascun caso venga esposto ai familiari dei defunti, che devono essere risarciti nei termini previsti dalla legge; e che si indaghi sugli assassinii del quattro giugno, perché sia possibile individuare i responsabili e punirli. Le nostre richieste possono essere riassunte così: ‘Verità, Risarcimento, Responsabilità’. Da sempre teniamo saldi gli ideali della pace e della ragione. Ci rivolgiamo all’assemblea e alle autorità governative perché impieghino i metodi propri della democrazia per avviare un dialogo che ci porti a una risoluzione equa. Eppure, finora le nostre richieste non sono mai state accolte. Nel 2006, perché si giungesse a una risoluzione degli eventi del ‘Quattro Giugno’ ed assicurarci che la situazione evolvesse lungo un percorso predefinito, avevamo proposto quanto segue: che in primo luogo ci si occupasse delle questioni più semplici. I temi che ci dividono, quelli su cui non ci si accorderà facilmente, possono essere accantonati, per il momento. Piuttosto, vogliamo che si affrontino per primi i temi che riguardano i diritti fondamentali delle vittime e i loro interessi personali. Questi temi includono: 1) la fine del controllo e delle limitazioni al movimento per le vittime del quattro giugno e i loro familiari; 2) che sia permesso ai familiari dei defunti di commemorare apertamente i propri cari; 3) che si interrompano le confische degli aiuti nazionali e internazionali, e che vengano restituiti i fondi precedentemente congelati; 4) che i principali dipartimenti governativi, per spirito umanitario, aiutino le vittime che si trovano in difficoltà a trovare un impiego, e garantiscano loro le più elementari condizioni di vita, senza richiedere alcuna condizione politica in cambio; 5) che vengano cancellati i pregiudizi politici attualmente riservati alle vittime rese disabili quel quattro giugno, in modo tale che venga garantito loro il giusto trattamento, pari a quello riservato a tutte le altre persone disabili...”.
(www.hrichina.org)

1 marzo 2008. L’Ucraina e la crisi
Giovedì, racconta Joseph Sywenkyj, corrispondente del The New York Times, erano a decine davanti alla Rodovid Bank di Kiev per ritirare i loro depositi. La banca sta fallendo.
Le industrie chimiche e dell’acciaio, una volta spina dorsale dell’economia dell’Ucraina, stanno licenziando migliaia di lavoratori. Le città sono rimaste per giorni senza riscaldamento e acqua impossibilitate a pagarne i costi. La metropolitana di Kiev rischia di fermarsi anch’essa. Intanto le code davanti alle banche si allungano, la moneta perde valore e il governo traballa. Ma l’intero paese, fino a poco tempo fa considerato universalmente simbolo di una democrazia che si è liberata dell’autoritarismo, barcolla. La gente è esasperata. Vasilj Kirilyuk, 29 anni, oggi in piazza a protestare, era in quella stessa piazza anche quattro anni fa, assieme agli altri dimostranti per la Rivoluzione arancione. Oggi il presidente Yushchenko, leader di quella rivoluzione, diventato famoso nel 2004, quando il suo viso rimase deturpato da un tentativo di avvelenamento, è così malvisto che dagli ultimi sondaggi risulta che il 57% della popolazione vorrebbe che si dimettesse. Tuttavia i suoi rivali, in vista delle prossime elezioni, non vogliono adottare politiche di austerità per non inimicarsi la popolazione.
L’Ucraina, tra l’altro, non è l’Islanda. Il collasso di questo paese, che conta 46 milioni di abitanti ed è situato in una posizione strategica, metterebbe a repentaglio il futuro dell’intera Europa dell’Est. C’è poi l’incognita Russia.
Intanto i segni della crescente tensione si moltiplicano. Negli ultimi giorni, 200 tir sono rimasti parcheggiati fuori dalla città con la minaccia di bloccare il traffico se il governo non fosse intervenuto a far qualcosa contro la svalutazione della moneta e per chiedere che i soldi stanziati dal Fondo Monetario Internazionale vadano alla gente.
Nel frattempo alla Rodovid Bank i correntisti trascorrono buona parte delle loro giornate in fila nel disperato tentativo di recuperare i loro risparmi. Con ben poche speranze, dato che ogni giorno possono prelevare non più dell’equivalente di 35 dollari.
(www.nytimes.com)

3 marzo 2009. Donne afghane
Nel 2003, quando i genitori la costrinsero a sposare un uomo di 41 anni, religioso, non vedente, Mariam aveva 11 anni. Il prezzo della sposa, 1200 dollari, permise al padre di Mariam, tossicodipendente, di saldare un debito. Dopodiché la bambina finì nella casa della suocera che la trattava come una schiava. Veniva anche picchiata, così, dopo due anni di abusi, prese coraggio e fuggì andando a cercare aiuto in una stazione di polizia di Kabul.
Kirk Semple, l’autore dell’articolo, racconta che solo qualche anno addietro, il suo gesto sarebbe stato premiato con un arresto o semplicemente sarebbe stata rimandata a casa. Invece Mariam è stata condotta in una palazzina a due piani, in un quartiere residenziale, una casa-rifugio per donne, qualcosa che qui fino al 2003 era sconosciuto. Dal 2001, dopo la caduta del regime dei talebani, ha iniziato a prendere forza una nozione più egualitaria rispetto alle donne, che trova fondamento nella costituzione e viene promossa dal neonato ministero per le pari opportunità oltre che da una crescente rete di organizzazioni femminili.
Certo, resta una società fortemente patriarcale, in cui per tradizione la donna è proprietà del marito. Tant’è che l’istituzione di queste case-rifugio è stata vista come un’indebita intrusione nel sistema vigente in cui clan e famiglie tendono a risolvere al loro interno i problemi -sempre però a favore degli uomini, denunciano le donne. Tra l’altro prima una donna abusata non aveva materialmente un altro posto dove andare. Essendo inibito anche il rientro nella propria famiglia d’origine da padri e fratelli preoccupati del famigerato “onore” infranto. Purtroppo a rendere le cose più complicate c’è anche la cosiddetta “cultura del silenzio”: spesso le vittime non hanno il coraggio di raccontare quanto avvenuto per la vergogna; non a caso il suicidio continua a essere considerato una via d’uscita. E poi ci sono le aree rurali dove le tradizioni sono più forti ed è più difficile per le donne avere accesso a organizzazioni femminili o ai tribunali. Mariam oggi è felice, dopo il divorzio ha deciso che studierà per diventare anche lei avvocato. Purtroppo nel frattempo invece la sua famiglia non è cambiata. Un anno fa la sua sorella minore, 9 anni, è stata data in moglie per 400 dollari, necessari a pagare l’ennesimo debito del padre.
(www.iht.com)

11 marzo 2009. Morti in Iraq
Dal 19 marzo 2003, data di inizio della guerra, sono morti 4257 soldati, di cui 3424 in combattimento. I feriti risultano invece 31.089, per quanto stime informali parlino di un numero superiore ai 100.000.
(www.antiwar.com/casualties/)

12 marzo 2009. La famiglia al-Samouni
Una famiglia palestinese ha denunciato al Tribunale di Nazareth Ehud Olmert, il primo ministro uscente, e altri vertici israeliani. La famiglia al-Samouni, che durante il conflitto ha perso 29 membri, ha chiesto un risarcimento di 200 milioni di dollari per “negligenza criminale”. Sono morti circa 1300 palestinesi durante la guerra di Gaza.
I superstiti della famiglia al-Samouni hanno raccontato come i soldati israeliani abbiano radunato le decine di membri della loro famiglia allargata in un solo edificio che il giorno dopo è stato bombardato. A due mesi dall’attacco, gli al-Samouni sopravvissuti vivono in una tenda, accampati accanto alle macerie della loro vecchia casa.
(http://english.aljazeera.net)

13 marzo 2009. Cosa si vende in recessione
Sean Gregory ha pubblicato un breve reportage sul “Time” sulla propensione agli acquisti in questo periodo, da cui ha dedotto che l’ultima cosa che la gente desidera in recessione è di avere dei bambini. Uno studio condotto dalla Nielsen ha infatti registrato un aumento dei “prodotti” che hanno a che fare con la pianificazione familiare, come profilattici e altri contraccettivi che nei primi due mesi di quest’anno hanno visto un aumento del 10,2%.
Pare che l’aumento sia dovuto anche a un fenomeno indiretto, per così dire. In sostanza la crisi spinge la gente a spendere meno e quindi a uscire meno. Gli analisti parlano di “cocooning” che significa ritirarsi in casa, ridurre la socialità ecc. Il fatto è che per le coppie il “cocooning” evidentemente aumenta i rischi di cui sopra, di qui l’aumentato ricorso ai contraccettivi. Altri acquisti significativi sono gli alimenti da preparare a casa e scatolame da accumulare nelle scansie. Come pure gli attrezzi e gli ingredienti per farsi pane e biscotti in casa. Aumenta l’acquisto di alcolici, mentre cala quello di gelati e dessert in generale e ovviamente dell’acqua minerale, sostituita con quella di rubinetto. A calare del 31.5% sono rullini e macchine fotografiche. DeMott dell’Encore Associates, che si occupa di vendite e marketing, la butta sul ridere: “Decisamente la macchina fotografica non è qualcosa di cui oggi hai bisogno”. Chi infatti avrà voglia di ricordare questi tempi? In più non si fanno nemmeno bambini!
Prevedibilmente crollano anche i consumi di deodoranti e spray per la casa: se hai la fortuna di trovarti con qualche dollaro in più, non penserai davvero di usarli per far profumare il bagno di menta fresca!
Pare che la crisi abbia attivato una specifica reazione psicologica, che permea tutti i segmenti, a prescindere dallo status socio-economico. La gente pensa di dover comunque mettersi al riparo e così riempie le dispense.
“Siamo diventati un paese di cocooners”, conclude Gregory.
(www.time.com)

13 marzo 2009. Beni proibiti a Gaza
La lista dei generi che non possono entrare a Gaza sta aumentando. Dalla fine di gennaio ci sono restrizioni su carburante, gas per cucinare, materiali per costruire. Poi a febbraio qualcuno ha denunciato che Israele bloccava anche i datteri, le bustine da tè, i puzzle per bambini, la carta per stampare i testi scolastici e la pasta (per Israele non è considerato bene umanitario, solo il riso lo è), ora nella lista dei materiali proibiti sono entrati anche carta igienica, sapone, spazzolini e dentifricio, marmellata, alcuni tipi di formaggio e i ceci per fare l’hummus.