Da quando al Tribunale di Venezia è iniziato il processo contro i massimi dirigenti di Montedison ed Enichem, da Cefis a Schimberni a Necci (quello passato poi alle tangenti per l’Alta Velocità) imputati per “strage e disastro colposo” causati dalle lavorazioni del Cvm (il gas cloruro di vinile monomero da cui si ricava il Pvc, la plastica di Poli-Vinil-Cloruro), a Marghera si comincia a respirare un’aria un po’ meno inquinata.
Lo dico sia in senso figurato, perché si è rotta una cappa di omertà e rassegnazione sulla reale situazione di inquinamento e sulla necessità di cambiarla radicalmente, sia in senso materiale, perché ora lorsignori hanno paura di conseguenze penali e si danno da fare per pagare centinaia di milioni a ciascuna famiglia degli operai morti o anche gravemente ammalati a causa del gas killer, il Cvm, e per investire un po’ di miliardi nel risanamento ambientale.

L’inferno di Porto Marghera
Facciamo un passo indietro e diamo qualche numero relativo all’inferno di Porto Marghera: nata dopo la prima guerra mondiale con industrie cantieristiche, siderurgiche, metallurgiche (zinco e piombo) e chimiche (fertilizzanti e altro) ha 15.000 addetti nel 1945; si raddoppia negli anni 60 (la punta sono 33.000 addetti nel 1965) con la seconda zona industriale basata sul settore petrolchimico e, negli anni 70, energetico.
L’inquinamento è tale che un’indagine condotta su 1.000 bambini delle V elementari di Marghera, Mestre e Venezia-centro storico dall’Istituto di Medicina del Lavoro dell’Università di Padova, conclude con queste parole: “Dato per Venezia un blando inquinamento atmosferico, pari a due sigarette al giorno, i bambini di Marghera è come se ne fumassero una decina, mentre per quelli di Mestre siamo oltre le venti sigarette al giorno”. Mestre e Marghera sono entrambe confinanti con la zona industriale di Porto Marghera.
Il cuore e, insieme, la parte più tossica del processo produttivo del petrolchimico è la linea del cloro, che parte dall’impianto Cloro-Soda (dove si produce il cloro dal sale marino, appunto cloruro di sodio) e arriva al Cloruro di Vinile Monomero (gas cancerogeno) al Di-Cloro-Etano (altro cancerogeno) per arrivare al prodotto finale, la plastica Pvc molto usata in edilizia, tubature, arredamenti, ma anche giocattoli, bottiglie, teli per l’agricoltura, parti di automobili, contenitori per alimenti (frutta, carne, pesce, formaggi, dolci), cosmetici, prodotti chimici per la casa, eccetera.
Si tratta di una produzione economicamente molto vantaggiosa, perché la materia prima principale, il cloruro di sodio, esiste in natura in quantità praticamente illimitata ed ha perciò un costo bassissimo.
C’è solo un piccolo particolare: che dal 1972 è ufficialmente accertato che il Cloruro di vinile (o Cvm) è un potente agente cancerogeno (oltre che teratogeno e mutageno, crea cioè malformazioni ai figli di chi ne è rimasto intossicato), che provoca un particolare tipo di tumore al fegato detto “angiosarcoma”. La certezza è venuta non tanto da indagini di laboratorio, quanto da studi epidemiologici, cioè sugli operai che avevano lavorato a contatto con questo gas.
Sta qui la criminalità dei dirigenti Montedison ed Enichem: nel sapere esattamente da decenni questo fatto, ma aver fatto di tutto perché “la produzione (cioè il progresso, il profitto, il loro tornaconto) andasse avanti”, sulla pelle di centinaia di lavoratori ignari, malinformati, ricattati, costretti al silenzio e all’autolesionismo.
Quando uno di loro si ammalava e moriva rapidamente a 30, 40, 50 anni, la voce del padrone diceva subito “è cirrosi epatica, beveva troppo”, oppure “non si capisce la causa” o forse “fumava più di un pacchetto al giorno” e via depistando.

Gabriele Bortolozzo
obiettore di coscienza alle produzioni cancerogene

C’è voluta la forza d’animo, l’ostinazione e il coraggio di un operaio per smantellare, pietra su pietra, questo castello di infami falsità: Gabriele Bortolozzo, dipendente Montedison per trent’anni. Gabriele è stato il primo, e forse l’unico, operaio che si è dichiarato “obiettore di coscienza alle produzioni nocive” rifiutandosi pubblicamente di lavorare nei reparti del Cvm in base ai dati scientifici allora noti. Eravamo nel 1985, il caso ebbe larga eco su stampa e televisioni locali e nazionali; la direzione lo spostò in una specie di reparto “confino”, un magazzino dove non poteva parlare con quasi nessuno. Ma Gabriele non si perse d’animo e continuò quell’opera ...[continua]

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