27 febbraio 2008
Sembra che Israele faccia proprio di tutto per costringere i palestinesi a ricorrere alla loro arma più terribile e distruttiva, un’arma contro cui Israele potrebbe ben poco: dichiarare la sconfitta, rinunciare definitivamente a uno stato palestinese e alla lotta di liberazione nazionale per intraprendere quella per i diritti civili e di cittadinanza. Quindi poi per condurla adotteranno metodi non violenti, manifestando ogni giorno, uomini, donne e bambini insieme, forzando tutti i posti di blocco a costo della vita, allora per lo stato ebraico sarebbe l’inizio della fine.

Sulla campagna contro la 194
Ma se uno pensa che nel paese di cui è cittadino, e casomai pure vicino a casa sua, si commettano quotidianamente, per legge, degli omicidi di innocenti in serie, come fa a vivere? Se per noi è un pensiero molesto sapere che un giornale finanziato dallo stato grazie a un raggiro della legge, conduca, con soldi quindi anche nostri, una campagna infamante contro la libertà delle donne, possiamo ben immaginare cosa può provare chi crede di vivere accanto a una fabbrica di morte legalizzata. Ci si potrebbe aspettare, se non che organizzi un gruppo armato clandestino per cominciare a colpire gli assassini, che almeno si metta a digiunare a oltranza incatenato a qualche cancello di un edificio deputato all’orrore, o che impegni il proprio patrimonio nella lotta per strappare alla morte tutte le vite che può; comunque ci aspetteremmo di vedere visi cupi, ossessionati, segnati dall’insonnia. Macché. Il tipo se ne vuole andare in parlamento. E abbiamo letto un suo articolo in cui raccontava, con la finezza che gli è propria e con dovizia di particolari, della sua barca, delle sue case, dei suoi cani, del suo tempo libero, concludendo che pur dovendo, per la campagna elettorale, distogliere del tempo a tutte queste cose amate, era molto contento di averne guadagnata un’altra: il buon umore.

Dialoghetto sulla Fiera del libro
A: Andrai alla Fiera del libro di Torino?
B: No.
A: Intendi forse boicottarla?
B: No, non esattamente.
A: Allora perché?
B: Perché non riesco più ad andare a Torino, che pure è una città a cui sono molto legato.
A: Ma se tu abitassi a Torino ci andresti?
B: No. L’ultima volta che sono stato alla Fiera -che se non sbaglio si chiamava a quei tempi Salone del libro- era il 1993. Mi feci l’idea che era assurdo frequentare un luogo in cui l’offerta di libri, di persone e di dibattiti è eccessiva. Immagino che da allora i numeri siano aumentati.
A: Non capisco.
B: Quando i libri, le persone e i dibattiti sono troppi non si riesce a selezionare quelli che interessano davvero: si vorrebbe scoprire o trovare qualche libro che le librerie non hanno, vedere o rivedere alcuni vecchi amici, partecipare a qualche incontro. Ma è quasi impossibile, almeno per chi non sia un professionista o un assatanato dei dibattiti e delle presentazioni.
A: Spiegati meglio.
B: Siamo frastornati sia dalla folla infantile, giovanile e adulta sia dal rumore; spesso non troviamo chi cerchiamo e rischiamo invece d’incontrare persone moleste che avevamo dimenticato senza rimpianti: il rispetto e la buona creanza verso i nostri simili ci obbligano a intrattenerci con loro, trascurando altri a noi più prossimi. Alla fine ci si sente un po’ spersi in un’iperlibreria in cui bisogna pagare il biglietto e se si acquista un libro non si ha alcuno sconto sul prezzo di copertina.
A: Mi sembrano scuse un po’ snobistiche per non affrontare la questione della presenza dello stato d’Israele come ospite d’onore.
B: Non è così. Ammetto però che il caso di quest’anno mi ha reso evidente una cosa a cui non avevo mai fatto troppo caso: alla Fiera c’è sempre uno stato ospite, e questo non mi piace. Non mi piace il nazionalismo, figuriamoci se mi piace il nazionalismo della poesia, del romanzo, della storiografia, e via dicendo.
A: Ma Israele è uno stato democratico, e inoltre ha eccellenti scrittori e ottimi storici.
B: Ripeto che non mi piace né se si tratta di una democrazia né se si tratta di uno stato autoritario. Anche se l’ospite d’onore fosse stato l’Egitto, come inizialmente doveva essere, le cose non sarebbero cambiate. In quel caso i dirigenti della Fiera avrebbero comunque dovuto chiedere ufficialmente alle autorità culturali egiziane (è facile immaginare con quale ascolto) di ammettere e presentare anche libri di scrittori egiziani esuli, dissidenti o magari incarcerati.
A: Ma quest’anno è il 60° dello stato d’Israele.
B: Tanto meno, mi pare, esso può valere come criterio d’invito o di autoinvito (se è vero quanto si è letto sui giornali). Un anniversario così vicino, anzi, accentua e irrigidisce la postura nazionalistica e ufficiale di quanti rappresentano lo stato ospite e può renderli meno sensibili alle ragioni e alle istanze degli scrittori dissidenti o di altra nazionalità che vivono nel suo territorio.
A: Ma insomma, sei per il boicottaggio?
B: No, o almeno ho forti dubbi.
A: In che senso?
B: Il boicottaggio solleva molti problemi, teorici e pratici, che non mi sento e non sono in grado di affrontare in poche battute. Credo anche che non sia mai un buon argomento contrapporre un boicottaggio a un altro, ma non posso fare a meno di pensare (e sarei ipocrita se non lo dicessi) che chi si oppone al boicottaggio di Israele alla Fiera del libro dovrebbe opporsi anche, per fare un esempio, al boicottaggio energetico e sanitario dei palestinesi di Gaza.
A: Mi sembra che tu non voglia pronunciarti sul boicottaggio della Fiera del libro.
B: In questo caso mi pare che il boicottaggio finisca per dare una risposta -indiscutibilmente legittima, soprattutto se viene da israeliani e/o palestinesi- ma impotente, impopolare e speculare rispetto alla decisione della Fiera. Vuole essere inclusivo verso gli scrittori palestinesi che patiscono un’occupazione atroce, ma di fatto tende a condizionare e limitare, se non a escludere, gli scrittori israeliani che sono stati invitati a rappresentare il loro stato, provocando in essi irrigidimenti e chiusure. D’altra parte, pensare a incontri informali in quei pochi giorni di maggio, fuori e dentro la Fiera, fra pacifisti palestinesi, israeliani e italiani, mi pare del tutto irrealistico. Il risultato, a mio avviso, è un vero pasticcio.
A: Che proponi di fare, allora?
B: Cambiare radicalmente formula. Non saprei dare consigli “costruttivi”. Ma credo che la prima cosa da fare sia non invitare più gli stati in quanto tali alla Fiera del libro (per non essere da meno di quelle di Francoforte, Parigi, ecc.). Secondo me, la Fiera dovrebbe accogliere editori e scrittori senza altri vincoli di appartenenza e fedeltà che non siano quelli della ricerca intellettuale libera e spregiudicata e del confronto fra culture e letterature. Se non rappresentano ufficialmente uno stato, se non sono embed-ded, editori e scrittori di ogni parte del mondo saranno più liberi di pensare, scrivere, pubblicare e dire quello che vogliono; ma non per questo saranno meno legati, se vogliono, alle ragioni e alla storia della loro nazione e del loro stato (se ne hanno uno).
Luca Baranelli

1 marzo 2008
Dal blog di “sunshine”, adolescente irachena, riportiamo il diario di sabato 1 marzo.
La scuola è ricominciata la scorsa domenica, e ho visto i miei voti: sono buoni, tra i migliori della classe, ma non sono soddisfatta del voto di fisica, volevo prendere di più…
Ho preso 96% in inglese, 92% in francese e 91% in arabo, ed è davvero fantastico, perché prendere buoni voti in francese ed arabo nella mia scuola è una specie di “mission impossible”. Ma la cosa che mi ha fatto più piacere è stato il voto al tema di arabo, il più alto della classe, una delle tesine migliori che abbia mai scritto.
“Z” (mia compagna di classe), rimasta ferita nell’espolosione, è tornata a scuola, e l’ho rivista per la prima volta. Sono rimasta sconvolta. Il suo volto era sfigurato, non sembrava nemmeno lei. Comunque la cosa più importante è che sia ancora viva, non m’importa del suo aspetto, dentro resterà sempre la “Z” che conosco.
“Z” è una delle più intelligenti della sesta classe, quest’anno sarà decisivo per la sua carriera futura, in base ai voti che riuscirà a prendere all’esame finale. Dopo la quinta classe, molti passano le vacanze estive a prepararsi per la sesta; scelgono il professore che vogliono, creano un gruppo di otto o dieci studenti, e si incontrano per le lezioni a casa dell’insegnante, o a casa di uno degli alunni. Alcuni preferiscono prepararsi solo sulle materie scientifiche, mentre altri scelgono di studiare sia le materie scientifiche che quelle letterarie. Le chiamiamo lezioni private, per tanti sono troppo costose. Come sapete, in Iraq la disoccupazione sta crescendo, e gli stipendi sono bassi. La mia amica starà a casa dei suoi nonni a Mosul, perché le lezioni private costano meno lì rispetto a Baghdad (circa 250.000-300.000 dinari per ogni materia, a Mosul).
Per quanto mi riguarda, nelle vacanze estive studierò fisica, matematica, chimica ed arabo, perché gli insegnanti a scuola non riescono mai a finire il programma durante l’anno accademico, e non so nemmeno se la situazione sarà abbastanza tranquilla da poter andare a scuola tutti i giorni. Come se non bastasse, alcuni insegnanti non sanno spiegare, e quando qualcuno chiede loro di rispiegare qualcosa, quelli dicono “Perché? Tanto seguite tutti lezioni private”.
Mia madre, senza studiare per nulla durante le vacanze estive, prese uno dei voti più alti della scuola. Avrebbe potuto frequentare le migliori università dell’Iraq; a quel tempo, gli insegnanti facevano del loro meglio per assicurarsi che tutti gli alunni capissero la lezione. Sfortunatamente, oggi, alcuni insegnanti si rifiutano di rispondere alle nostre domande, e non spiegano nemmeno bene.
Questo post è un po’ troppo corto, perché avrò l’elettricità per pochissimo…
Sunshine
(http://livesstrong.blogspot.com/)

2 Marzo 2008
Pubblichiamo un brano dal diario di domenica 2 marzo di Laila El-Haddad, blogger e giornalista palestinese, che si divide tra Gaza e gli Stati Uniti, dove vive il marito, anch’egli palestinese, a cui è stato negato il diritto al ritorno a casa.
Oggi abbiamo festeggiato il quarto compleanno di Yousuf. Abbiamo mangiato la torta, e contato i cadaveri. Abbiamo cantato “tanti auguri a te”. E mia madre singhiozzava. Abbiamo guardato i voraci jet rombare senza sosta nella televisione, il loro rimbombo diffondersi strada dopo strada: poi abbiamo sentito il fischio di un treno, fuori, e siamo sobbalzati. Yousuf strappava la carta dei regali, chiedendo a mia madre di fargli un zanana, un drone, con l’origami: intanto noi eravamo dilaniati dentro, bloccati da un sentimento di impotenza e smarrimento; paura e rabbia, pena; depressione e confusione.
“Stiamo morendo come mosche”, ha detto Yassine la scorsa notte, mentre contemplavamo la copertura mediatica mondiale degli eventi degli scorsi giorni.
Persino il Guardian ha citato i morti palestinesi, inclusi i bambini, solo nell’ultimo paragrafo.
Uno studio svolto da “If Americans Knew”, infatti, ha scoperto che la copertura fatta dall’Associated Press Newswire del conflitto israelo-palestinese distorce completamente la realtà, essenzialmente dando molto più spazio alle vittime israeliane del conflitto, e trascurando quelle palestinesi. Lo studio ha rivelato che la Associated Press riporta molto più spesso le notizie relative alla morte di bambini israeliani, anche ripetendole, ma tralascia l’85% delle piccole vittime palestinesi. Alcuni anni fa, la stessa organizzazione riscontrò che il New York Times commentava la morte di un bambino palestinese in media ogni sette israeliani.
Solo quando il vice-ministro Matan Vilnai ha usato il termine “Shoà” per descrivere ciò che sarebbe accaduto a Gaza, alcuni media hanno dato segnali di reazione. Ecco un membro del governo israeliano invocare in prima persona l’olocausto, il più orrendo massacro subito dal suo popolo, con riferimento al destino di Gaza; e probabilmente, i media non sono rimasti colpiti dal fatto che gli abitanti della Striscia potessero soffrire del medesimo destino, bensì da una scelta dei termini -genocidio, olocausto- fatta con una tale apparente leggerezza: usare un termine tanto carico di significati può in qualche modo diminuire l’orrore dell’atto originario.
E’ come se tutto ciò che è successo a Gaza -ciò che continua ad accadere, che sia un assedio o una serrata, tanto deliberati quanto prolungati, o il crescente numero di vittime- fosse ormai accettabile...
(a-mother-from-gaza.blogspot.com)

3 marzo 2008. Tennis da tavolo
Venerdì 29 febbraio la Federazione Internazionale di Tennis da Tavolo (Ittf) ha votato un nuovo regolamento per i campionati e le Coppe del mondo. “Quando è troppo è troppo” avrebbero tuonato le autorità. Già da qualche anno, riporta un articolo di Le Monde, le competizioni di tennis da tavolo sono sempre più delle partite sino-cinesi: da una parte del tavolo, i titolari di un passaporto rilasciato dalle autorità di Pechino; dall’altra dei cinesi naturalizzati da paesi in cerca di talenti introvabili all’interno dei propri confini. All’ultima Coppa del mondo feminile, su 16 concorrenti, 14 erano d’origine asiatica.
E così, ecco i nuovi provvedimenti: tutti i giocatori naturalizzati prima dei 15 anni dovranno aspettare tre anni prima di indossare i nuovi colori. Il tempo di “latenza” sale poi a cinque anni per quelli naturalizzati tra i 15 e i 18 anni, e a sette anni per i giocatori naturalizzati tra i 18 e i 21.
Per Claude Bergeret, già campionessa e oggi vicepresidente dell’Ittf, non si poteva andare avanti così. La mozione è stata votata con 45 voti a favore e due contrari. Pare abbiano votato a favore anche i rappresentanti cinesi, ormai consapevoli del rischio, anche economico, che il grande pubblico internazionale si stufi di seguire uno sport giocato ormai solo da cinesi.
Resta il problema giuridico. Questo genere di regolamenti viene infatti spesso impugnato davanti ai tribunali. Per l’avvocato Serge Pautot, specializzato nel diritto dello sport, si tratta indubitabilmente di una discriminazione: “per un naturalizzato rappresenta una restrizione al diritto a lavorare”. Claude Bergeret contesta l’analisi ricordando che la normativa si riferisce a campionati e coppe, dunque competizioni senza premi. Il fatto è che tali competizioni spesso sono occasioni per conquistare notorietà e quindi farsi notare da potenziali e generosi sponsor…
(www.lemonde.fr)

Lettera dal Kenya
Cari amici, una violenza di questo tipo in Kenya non si vedeva da almeno dieci anni. Una violenza inaspettata e straordinaria, a giudicare dallo stupore degli osservatori internazionali, e da quello degli stessi abitanti.
E come spesso avviene nell’analisi dei conflitti africani, l’idea di una opposizione tra gruppi etnici pare la griglia di interpretazione privilegiata: ci sono odi ancestrali che oppongono il presidente uscente Kibaki, dell’etnia kikuyu, a Odinga, esponente della tribù avversaria Luo, o i kikuyu alle restanti 42 altre tribù kenyiote?
Banale e attraente, questa spiegazione affascina e semplifica come qualsiasi analisi dei conflitti africani: popoli fieri e guerrieri che da sempre avrebbero fatto della guerra (fratricida) la loro via di risoluzione ai conflitti.
Vista così appare naturale che anche il Kenya scivoli nella violenza così come i suoi belligeranti vicini somali, sudanesi, ugandesi... se questi termini nazionali hanno ancora valore nell’ottica del tribalismo.
Ma se cambiamo prospettiva, e abbandoniamo l’approccio etnico, la violenza che è esplosa “inaspettata” negli slums di Nairobi, dove milioni di persone vivono stipate in baraccopoli malsane, prive di alcun servizio e di ogni diritto fondamentale, assume un aspetto diverso.
Quello che vediamo è un paese la cui economia galoppava con un tasso di crescita costante al 5%; le cui spiagge candide attraevano turisti da tutto il mondo, soprattutto italiani che hanno fatto di Malindi una loro decadente e artificiale Rimini, e i cui sinuosi corpi Masai incarnavano idee di paesaggi selvaggi e profumi esotici. Un paese complesso nel quale gli interessi sono politici e sociali, economici e famigliari, tribali e internazionali, nazionali e regionali allo stesso tempo e senza alcuna distinzione. E andando ad esplorare tra di essi, si scopre che il presidente Kibaki attraverso la sua holding è azionista maggioritario delle maggiori compagnie con sede a Nairobi.
Si scopre che nelle due settimane prima delle elezioni quasi 5000 vetture sono sbarcate dal Giappone a Mombasa e immatricolate grazie a una insostenibile politica dei prestiti nei confronti di quella che da noi si definirebbe una media borghesia.
Si scopre che negli ultimi anni il governo ha attuato scelte finanziarie che oltre ad affamare il povero (che in Kenya è comunque destinato a rimanere affamato) ha gettato nell’instablità economica anche la classe media, coloro che socialmente fungono da cuscinetto all’emergere di autoritarismi di ogni colore.
Mentre divampava la speculazione finanziaria, travestita da un maggiore accesso ai servizi bancari per gran parte dei kenyoti che si sentivano virtualmente più benestanti, il governo attuava un’originale e amorale “ridistribuzione della ricchezza”. Sono stati creati grandi conglomerati residenziali di lusso (alti palazzoni a schiera, di dubbio stile e funzionalità spartana) con annesso, ma non integrato, blob di baraccopoli. Un’invenzione geniale ed assuefante: il ceto medio ricco (non i ricchissimi rifugiatisi in politica o ancora meglio all’estero) redistribuisce la propria ricchezza ai poveri aprendo le proprie porte a giardinieri, autisti, cuoche, cameriere e dame di compagnia.
Sorprende ancora che in un contesto aspro e profondamente diseguale come quello del Kenya (ma soprattutto di Nairobi) in cui la violenza è ingiustizia sociale, è povertà, è corruzione mentale, un’elezione manipolata abbia aperto un vaso che di Pandora non è? Da sempre il tribalismo e l’etnia sono concetti che mobilitano masse di diseredati e degenerano in violenza apolitica come quella che si vede per le strade del Kenya, ma ha ragione l’ intellettuale kenyota Walter Oyugi quando dice che il concetto di etnicità in sé non è causa di conflitto. Lo può diventare, qualora venga politicizzato e strumentalizzato. Ma il Kenya, purtroppo, è anche un paese in cui si può discutere di tutto ciò in un lussuoso lounge bar a degustare l’ultima novità del menu, sapendo di avere il proprio passaporto in borsetta, mentre quella violenza imperversa sulle strade a pochi km in linea d’aria.
Francesca Rivelli

La campagna contro l’aborto
Dire che l’aborto è come Auschwitz non è solo un’offesa alle donne che patiscono un’interruzione di gravidanza, ma è un’offesa alla memoria dei morti di Auschwitz, uno sfregio ben peggiore delle martellate che un giovinastro può dare a delle lapidi in un cimitero. La banalizzazione di Auschwitz è talmente estrema che si fa fatica, e forse si fa pure peggio, a mettersi ad argomentare che “un miliardo di feti” non sono la stessa cosa che sei milioni di ebrei. Il colpevole di tale paragone ne porterà vergogna fino alla fine dei suoi giorni così come se l’è portata, e quello anche oltre, essendo un filosofo sempiterno, chi paragonò Auschwitz alla meccanizzazione dell’agricoltura.
Quel che fa impressione, invece, è proprio questo clima di tolleranza, di rapporti amichevoli, questa distribuzione preventiva di attestati di stima, di buona fede, a chiunque qualunque cosa dica. Sembra che non ci siano più cattive intenzioni, né moventi malvagi (a meno che non si sia musulmani, ovviamente). Alla fine l’impressione che dà questo sfoggio di buoni sentimenti, di “rispetto dell’altro” sempre e comunque (a meno che l’altro non sia musulmano, ovviamente), è che nel campo delle idee, qui da noi e soprattutto fra chi pensa di averne, tutto non valga più nulla. La lettera di Calvino che abbiamo pubblicato nel numero scorso era esemplare proprio per la chiusa: l’amicizia era rotta. Ricominciamo a togliere il saluto (pratica del tutto non-violenta, a scanso di equivoci). Sarà il segno che siamo tornati a credere, come i comuni mortali non hanno mai smesso di fare, che le idee hanno un valore e le parole comportano una responsabilità.

Ancora su parole e responsabilità
Viviamo in uno strano paese in cui più uno è potente e più è libero di dire quello che vuole senza tema di censura. Qualche anno fa in una sperduta scuola media inferiore del vicentino, il giorno della memoria, quando in una classe tutti i ragazzi si alzarono in piedi, un ragazzo palestinese rimase seduto. Interpellato, disse che quel giorno lui se lo sentiva contro. Fu sospeso per quindici giorni dalla scuola. Lasciamo perdere l’irresponsabilità dei professori, che certamente non hanno neanche capito cosa volesse dire il ragazzo, che certamente non avevano letto Pierre Vidal-Naquet e le sue parole di fuoco contro l’uso strumentale della memoria della Shoà per giustificare ogni scelta dei governi israeliani, fatto sta che quel ragazzo ha pagato, e forse sapeva che sarebbe successo, per aver “parlato male” della Shoà. Gli facciamo i nostri auguri dovunque sia. E speriamo vivamente che, andando avanti negli anni, si sia andato a leggere la storia del ghetto di Varsavia e non i Protocolli dei savi di Sion…

In difesa di Natasa Kandic. 10 marzo 2008
Pubblichiamo l’appello di Front line in difesa di Natasa Kandic, militante serba per la tutela dei diritti umani, che insieme all’amica kosovara Vjosa Dobruna ricevette il premio Alexander Langer 2000.
Front Line è molto allarmata nell’apprendere di minacce portate ai promotori dei diritti umani, tra cui Natasa Kandic, Direttore Esecutivo del Centro per il Diritto Umanitario, ed alle organizzazioni per i diritti umani attive in Serbia all’indomani della dichiarazione ufficiale di indipendenza da parte del Kosovo.
Il 20 febbraio del 2008, Il Partito Socialista di Serbia, all’opposizione, ha annunciato di aver cominciato una raccolta firme nell’ambito di una campagna per l’accoglimento di un ricorso per infrazione contro Natasa Kandic, Direttore Esecutivo del Centro Diritti Umanitari.
Natasa Kandic ha preso parte all’assemblea kosovara in cui è stata proclamata la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, il 18 febbraio 2008. Il Pss la accusa di aver agito contro il suo mandato costituzionale e di aver minacciato “l’integrità e l’indipendenza della Serbia”.
Queste accuse hanno ricevuto l’appoggio della gran parte dei media serbi, mentre i tabloid hanno dato il via ad una campagna di diffamazione nei confronti della Kandic, accusata di tradimento. Il 19 febbraio 2008, il quotidiano Novosti ha pubblicato un articolo intitolato “Natasa, la donna che non esiste”, dichiarando che Natasa Kandic sarebbe una “non persona”, incitando i lettori a considerare che nessuno perderebbe nulla da una sua “eliminazione”.
Secondo le informazioni raccolte, in Serbia c’è stato un incremento delle minacce e delle restrizioni operate ai danni di attivisti ed organizzazioni per i diritti umani, prima e dopo la dichiarazione ufficiale di indipendenza del Kosovo. Nel corso della sessione parlamentare del 19 febbraio 2008, Ivica Dacic, dirigente del Pss, ha chiesto che tutte le organizzazioni non governative che avessero riconosciuto l’indipendenza del Kosovo venissero perseguite a norma di legge.
Front Line ritiene che l’appello alla persecuzione delle organizzazioni non governative che riconoscono l’indipendenza del Kosovo, così come la campagna di diffamazione contro la militante per i diritti umani Natasa Kandic, siano parte di una campagna che, nel ritrarli come nemici del paese, finisce per stigmatizzare gli operatori dei diritti umani e le organizzazioni umanitarie operanti in Serbia. Front Line esprime inoltre la sua preoccupazione per la sicurezza e l’integrità psico-fisica di Natasa Kandic.
Front line invita le autorità serbe a:
1. Avviare un immediata, accurata ed imparziale indagine sulle espressioni diffamatorie rivolte contro Natasa Kandic, incluse quelle diffuse tramite media, con l’obiettivo di pubblicare i risultati dell’indagine e, dove possibile, perseguire i responsabili ai sensi di legge;
2. Assicurare la sicurezza e l’integrità psico-fisica di Natasa Kandic;
3. Assicurare a tutti gli operatori umanitari di Serbia, che legittimamente si occupano di diritti umani, la libertà di parola senza timore di intimidazioni o rappresaglie.
Front Line vuole rispettosamente ricordare alle autorità serbe che la Dichiarazione dei Diritti e delle Responsabilità degli Individui, dei Gruppi e degli Organi della Società per Promuovere e Proteggere i Diritti Umani Universalmente Riconosciuti e le Libertà Fondamentali, adottata all’unanimità dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre del 1998, riconosce la legittimità dell’attività degli operatori dei diritti umani, il loro diritto alla libertà d’associazione ed alla conduzione delle loro attività senza timori di rappresaglie. Vogliamo attirare la vostra attenzione in particolare sull’Articolo 6 (b): “Ciascuno ha diritto, individualmente ed in associazione con altri, come disposto dai diritti umani e da altri valevoli dispositivi internazionali, di pubblicare, impartire o diffondere liberamente presso terzi opinioni, informazioni e fatti a sua conoscenza sul tema dei diritti umani e delle libertà fondamentali”, e l’Articolo 12 (2.): “Lo Stato prenderà tutte le misure necessarie per assicurare la protezione da parte di tutte le autorità competenti, di chiunque, individualmente o in associazione con altri, contro ogni forma di violenza, minaccia, rappresaglia, de facto o de jure contro la discriminazione, la pressione indebita o altre azioni arbitrarie condotte in conseguenza del suo legittimo esercizio di quei diritti cui si fa riferimento nella presente Dichiarazione”. Sinceramente, Mary Lawlor, Direttore.
(www.frontlinedefenders.org)

15 marzo 2008
Boicottare le Olimpiadi sarebbe giusto. E forse sarebbe anche ora di cominciare a discutere dell’eventualità di dichiarare guerra (fredda, si intende) alla Cina e di sostenere con ben altro impegno i democratici cinesi. Purtroppo si teme che i cinesi si siano comprati già la metà di tutte le cambiali americane...
(A proposito: e il Papa? Ormai non passa accidente, che sia una tromba d’aria, un fattaccio di cronaca nera, finanche un grave incidente stradale, che non dica qualcosa, una parolina di conforto, la promessa di una preghierina. Per il Tibet niente? Ma come mai?)

18 marzo 2008
Crolli di borsa che si susseguono. Banche solo all’apparenza svendute. Siamo già al punto che solo una catastrofe ci salverà dalla catastrofe?

19 marzo 2008
Errata corrige. Questa mattina, quando in tutto il mondo cominciava a circolare un video uscito clandestinamente che documenta la vastità della rivolta e la terribile repressione ordinata dalle autorità cinesi, il papa ha parlato del Tibet.