L’intervento della Nato in Yugoslavia pone indubbiamente non pochi problemi a chi, come il sottoscritto e i redattori di questa rivista, è spettatore emotivamente e intellettualmente coinvolto ma cerca ugualmente di mantenere alto il disincanto del senso critico e quindi rifiuta di ricorrere tanto a formule ideologicamente preconfezionate, quanto a soluzioni semplicistiche.
Per questo non penso sia possibile, nel complesso di quanto è accaduto da quando la Yugoslavia è esplosa sotto la spinta di ben orchestrate campagne nazionalistiche, distribuire con facilità torti e ragioni. Ma tutto ciò nulla toglie all’inaccettabilità -culturale, etica e politica- della pulizia etnica, attuata oggi soprattutto a danno degli albanesi del Kosovo. E’ purtroppo vero che pulizie etniche e genocidi sono stati, e sono, tutt’altro che infrequenti, ma questo non toglie che sia perlomeno semplicistico affermare che la frequenza con cui queste tragedie si ripropongono di fatto finisca per renderle delle fatalità contro cui nulla si può fare. All’opposto, è proprio la passività con cui, per rimanere a casi a noi vicini nello spazio e nel tempo, il mondo ha assistito al genocidio dei tutsi in Rwanda e alle pulizie etniche avvenute nelle krajine serbe e croate e in Bosnia a renderli ancor più spaventosi. E noi ancor più colpevoli per averli permessi. Mentre è proprio la necessità di un intervento a favore dei kosovari a rimarcare la condannabilità della repressione e del genocidio culturale compiuti a danno dei kurdi e quindi più urgente un’azione che li contrasti.
Ma se la pulizia etnica è inaccettabile cosa fare per impedirla? L’intervento Nato può validamente contrastare quanto accade in Kosovo?
E’ rispetto a queste domande che sorgono i problemi maggiori, soprattutto perché vi sono almeno due questioni che non possono essere messe fra parentesi nel tentativo di rispondervi.
La prima riguarda il senso e l’efficacia delle "tradizionali" iniziative pacifiste (presenza, più meno simbolica, super partes; assistenza umanitaria; ecc.), che lo stesso svolgimento degli eventi yugoslavi ha mostrato inadeguate a contrastare le pulizie etniche e le guerre che le hanno accompagnate. I motivi di tale inadeguatezza sono sicuramente molteplici, ma ritengo che una sua ragione "interna" stia nel fatto che il pacifismo non riesce a comprendere che il contesto in cui la pulizia etnica si svolge non è quello di una guerra "classica", in cui si affrontano due eserciti uguali e contrari, ma quello di una particolare forma di guerra civile, in cui una parte della popolazione è vittima delle violenze attuate da bande armate e/o truppe regolari appoggiate, o accettate, da un’altra parte di popolazione. A questo si aggiunge poi il fatto che chi è disponibile ad attuare con inaudita ferocia la pulizia etnica, e anzi trova in essa la sua ragion d’essere, è decisamente sordo ad ogni richiamo umanitario e della ragione, riconoscendo solo la forza "pratica". Tutto questo mi sembra debba portare alla conclusione che, mentre in una guerra "classica" l’intervento pacifista può essere quello dell’"interposizione" equidistante fra i due eserciti, in situazioni come quelle verificatesi nella ex Yugoslavia è necessario, se si vuole evitare l’uso della violenza, mettere in campo una forza numericamente enorme, la quale non può essere super partes, ma deve scegliere da che parte stare impegnandosi in prima persona nella sua difesa. Quanto fin qui detto avrebbe comportato, nel caso concreto del Kosovo, la necessità di far giungere nella regione centinaia di migliaia di persone, le quali, "invadendo" le città, i villaggi, le campagne, avrebbero potuto impedire, facendo non tanto gli "osservatori" ma veramente gli "scudi umani", che le truppe di Milosevic e le bande dei cetnici serbi compissero il loro tremendo "lavoro". Tutto ciò, in sostanza, significa che è necessario riconoscere e accettare che, per quanto la cosa possa dispiacerci, la forza si ferma con la forza, anche se non è sempre necessario che tale forza sia armata e a sua volta violenta.
La seconda questione che ritengo necessario sottolineare riguarda il fatto che, per quanto le guerre significhino sempre morti, sacrifici e distruzioni, non è possibile ritenerle tutte uguali e quindi condannabili in blocco. Fare tale operazione, infatti, si rivela innanzitutto una facile, ma demenziale, scappatoia ideologica. Che proprio per questo non permette di vedere la complessità della realtà, la quale fa ...[continua]

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