Su una frase di don Giussani che cita il cardinal Martini…

"... Ma tale lettura, tutta interna agli avvenimenti, interna perché noi vediamo le cose come le vedono tutti ...ci aiuta ad accogliere le dinamiche profonde che sono all’origine di quella trasformazione? (...) Ecco la chiave di lettura paradossale per i media: il miracolo."
Quello che sta avvenendo, di cui ci si dà relazione sui giornali o alla televisione è il miracolo che Dio sta compiendo; il miracolo è il disegno di Dio. Questo miracolo ha un nome: Gesù Cristo. Questo è l'apporto che il nostro cuore, la nostra mente danno alla lettura -che facciamo con tutti gli altri nostri fratelli uomini- delle cose che ci vengono dette e fatte vedere. Perché questa chiave di lettura è definita "paradossale"? Perché è una grazia. Poter perseguire le tracce di un disegno più grande per cui tutti siamo fatti è un miracolo, è una grazia. Tale disegno è diventato un uomo che è morto in croce, portando dentro di sé tutto il male del mondo per distruggerlo, e infatti è risorto. In tal modo l’inizio della nostra speranza -di quello che il cuore spera, perché per esso il cuore è fatto- è già in atto.
dal discorso di inizio d'anno di Don Giussani, a commento di una lettera pastorale del Cardinal Martini.

Ringraziamo le amiche di CL per averci fatto riflettere su una citazione che non conoscevamo.
Di teologia non ce ne intendiamo e quindi, forse, bisognerebbe stare zitti. Ma di telegiornali un po' sì. E proprio in questi giorni leggevamo di quando, 47 anni fa, i "telegiornali di allora", i quotidiani di tutto il mondo, in trafiletti al fondo di pagine il più delle volte interne, davano la notizia che il ghetto di Lodz era stato sgomberato. Che la deportazione degli ebrei ungheresi era ultimata. Il "telegiornale di allora" sottintendeva Auschwitz nell'acquiescenza di tutti. Ma allora anche di fronte a quel telegiornale, troppo comodamente rimosso, bisognerebbe essere conseguenti e darla tutta la risposta. Che il miracolo è Auschwitz.
Qualcuno l'ha fatto, ma è una cosa che si fa anche fatica a dire, qualcosa che si può pensare solo in condizioni estreme. Forse una simile "assurdità" bisognerebbe lasciarla dire solo a chi, da uomo, è in croce. E ancora varrebbe solo per lui. Ma ad una risposta pronta, sicura di sé, comunque facile, verrebbe da rispondere che l'agonia di un Dio sulla croce, di fronte ad Auschwitz, non è che l'avventura di un giorno e la resurrezione una specie di gioco dei tre giorni. Ne "La notte" di Wiesel, di fronte al bimbo ebreo impiccato e ancora agonizzante, un detenuto chiede "dov'è dunque Dio?" e Wiesel risponde "eccolo lì, appeso a quella forca". Neher, teologo ebraico, commenta: "Strana evocazione della Passione, con una sola differenza, profonda come l'abisso, che ad essere in croce è un bambino ebreo innocente, e che fra tre giorni non risorgerà". Di fronte ad Auschwitz, giorno primo dell'altro calendario, resta quella domanda. Di fronte a tanto dolore "dov'era dunque Dio?". Che è poi la banalissima domanda, la prima, che ogni bimbo del mondo fa al catechista di qualsiasi religione, nei primi giorni della "scuola delle risposte". G.S.